giovedì 14 luglio 2011

Adotta un alveare - bollettini del 3 e 11 luglio 2011

3 luglio 2011.

Buongiorno.
È un sacco che non ci si sente, o meglio, che non emetto bollettini.
Un po’ perché in questa stagione, fra la raccolta delle aromatiche, le distillazioni, le api, i cavalli e, buona ultima, la sistemazione della legna per il prossimo inverno si finisce sempre tardi, ma anche un po’ perché non ho molto da dire, in questo periodo in cui continuano ad alternarsi giornate tropicali umide a –poche- giornate di bel tempo, con scrosci di pioggia che non innaffiano neppure l’orto ma che aumentano il tasso di umido.
Così le nostre, bionde e brune, fan quel che possono, e noi con loro.
Qualche giorno fa sono andato a ficcare il naso e ho trovato nei melari telaini completamente opercolati a fianco ad altri che gocciolavano nettare, così mi sono deciso a prelevare quelli opercolati, uno per uno, tanto per alleviare un po’ il lavoro alle piccole e, un telaino qui e uno là, ho portato a casa una quarantina di chili, di cui una quindicina delle brune.
Ho smelato, trovando un misto di acacia e tiglio: una squisitezza!
Tuttavia farò, con il restante del miele ancora nei melari, un millefiori: c’è un po’ di castagno, lavanda, meliloto, timo, tiglio e, naturalmente, l’acacia rimasta nei favi.

Una curiosità: aprendo l’alveare siculo numero sette, che aveva due melari, ho trovato una quantità di api impressionante: incuriosito, ho deciso di ficcanasare nel nido per guardare negli occhi la super regina ma, sorpresa, non solo nel nido non l’ho trovata, ma lo stesso era pieno, anziché di covata, di miele. Allora ho guardato nei favi dei melari, ed eccola lì, in mezzo ad una quantità enorme di covata: la signora si era sistemata nei piani superiori, ed aveva scelto di fare lì il suo dovere. Dev’essere successo che, in una precedente visita, aprendo il nido, la bella coronata ha deciso di farsi una passeggiata sulla griglia dell’escludiregina, di girare dalla parte superiore e lì di aspettare che io, ignaro, richiudessi il nido lasciandola al piano di sopra, dove evidentemente si è trovata benone e ha messo in piedi una bella famigliona.
Così ho dovuto togliere la grata, lasciando alla famiglia la libertà di organizzarsi come meglio credesse; per ora sembra che non abbiano nessuna intenzione di sgombrare i piani alti: la regina ha deposto una seconda covata nelle celle dei melari precedentemente già utilizzate, rinnovando il contratto d’affitto dell’attico per un altro mese. 
Insomma, fra sciamature e trasferimenti indebiti queste sicule sono davvero indisciplinate!
Aspetterò la fine di luglio e, se non è scesa, convincerò la dama a rientrare nei debiti ranghi…




11 luglio 2011.

Buongiorno.
Il termometro a Piana, oggi pomeriggio, segnava 32 gradi, e la situazione inizia a farsi siccitosa.
L’abbeveratoio dei cavalli è perennemente assediato da api che, a testa in giù, bevono acqua per portarla a casa; dalle tre del pomeriggio in poi, sullo sportellino delle casette, inizia a formarsi la “barba”: api che si mettono a ventilare, una dietro e a fianco all’altra, fino a pendere dal predellino, ad arrampicarsi sulla parete verticale, centinaia di piccoli ventilatori che ronzano.
I campi cominciano ad essere un po’ riarsi, e siamo fortunati che in valle qualcuno ha deciso di mandare in fiore la medica, così si possono vedere i voli decisi e veloci delle bottinatrici che partono con una direzione precisa in mente: escono come frecce verso la sinistra della casetta, dirette in valle, verso Taglio.
Fra una decina di giorni sarà ora di togliere tutti i melari: il miele raccolto sarà stato asciugato, nel frattempo, e verrà quindi il momento di occuparsi delle famiglie.
Ogni casetta verrà visitata con cura, telaino per telaino, perché è il momento più pericoloso per ogni tipo di infestazione, dagli acari della varroa ai virus: la covata inizierà a calare e le api saranno tante, con nulla da bottinare a disposizione e un sacco di nervosismo in giro.
Faremo le cure estive: una somministrazione di acido ossalico e, dopo un mesetto, un’altra di oli essenziali, che abbiamo già fatto –ricordate?- in primavera; valuteremo le scorte, daremo nutrimento se servirà, pareggeremo le famiglie e cambieremo i telaini troppo vecchi e scuri.
Insomma, si tratterà di restituire alle api parte dei favori che ci hanno fatto, con tutto il loro lavoro.
Per metà agosto tutti gli alveari dovrebbero essere a posto, e si starà a vedere cosa ci porta l’estate: magari un periodo di piogge in agosto regalerà un po’ di melata in settembre…

Nel frattempo, sempre per alleggerire le piccole, ho tolto un altro po’ di melari, e ho smelato ancora un poco di millefiori: dalle sicule un’altra quarantina di chili (e dalle bionde poco più) sono al sicuro nel maturatore, ad aspettare schiumatura e mescolamento.
Un saluto da Lodisio.

domenica 3 luglio 2011

Adotta un alveare - Bollettini di giugno

15 giugno 2011.
Buongiorno.
È un paio di giorni che, infine, s’è affacciata l’estate, dopo queste lunghe e forti piogge che abbiamo subito.
Il castagno è stato bottinato, quel poco che s’è salvato dall’acqua, ed ora le nostre stanno allegramente svolazzando su tiglio, lavanda, quel che resta del timo e della santoreggia, non disdegnando la malva selvatica e, nell’orto, le zucchine, in bella compagnia di stormi di farfalle e apidi di vario genere: c’è un traffico, sulle lavande e sul tiglio, che a stare a guardare ci si riposa.
Tuttavia, data l’umidità delle passate settimane, le nostre non hanno ancora opercolato del tutto l’acacia, così che abbiamo, nei melari, questa situazione in cui in alto c’è il melario di acacia, sotto un melario mezzo completato con acacia, un po’ di castagno e quel tiglio che sta ora giungendo, e, in alcuni –pochi- un terzo melario, dato che i primi due eran pieni, che stanno ora costruendo e, man mano, riempiendo di millefiori.
Invero potrei togliere l’acacia, che, se non ancora chiusa, è però asciutta, ma quest’anno è così bella che voglio vedere di toglierla quando è completamente opercolata, così che sia perfetta.
Ah, vanitas vanitatum!
Con questa pignoleria, così, non ho tolto altro miele di quel che già vi ho detto: mah!
Vorrà dire che lavorerò di più dopo.
Una annotazione: nel computo fra brune e bionde, le bionde stanno decisamente staccando le sicule, per quanto riguarda la cosiddetta rimonta, la capacità, cioè, di fare famiglia velocemente partendo da nucleo o dopo sciamatura o dopo interruzione della deposizione; mentre nella quantità di miele, a parità di forza, sulla distanza non vi è più la sproporzione del mese scorso, anche se le ligustiche sono comunque superiori alle sicule.
Io tengo i conti, poi alla fine vediamo.
Il polline, questo sconosciuto.
La prima cosa che vi dico è che io normalmente non lo recupero, e l’anno che lo faccio ne prendo pochissimo e solo per me, egoista che sono, non per vendere.
Di solito lo lascio asciugare un poco e poi, senza farlo seccare del tutto, lo metto sotto miele, in piccoli barattoli che finiscono poi in frigorifero, nella parte delle verdure.
D’inverno è davvero fantastico.
Ma dunque: il polline è polvere assai fine che racchiude in sé il materiale genetico maschile dei fiori di ogni tipo di piante che ne siano provviste.
Ogni granulo è portatore di tutto ciò che serve alla vita: protidi, glucidi, Sali minerali, oligoelementi, vitamine, ormoni ed enzimi.
Tuttavia grande è la varietà dei pollini, sia dal punto di vista della forma che del colore che delle proprietà, e, guardando al microscopio la forma dei granuli, che comunque sono contenuti nel miele, si riesce a capire da che tipo di pianta derivi.
Abbiamo così pollini di colorazione che varia dal giallo paglierino al nero, passando per l’arancione, il rosso, il verde-blu, il marrone.
Accade che l’ape bottinatrice, il cui corpo è completamente coperto da sottilissimi peli, entrando nel fiore per suggere il nettare resti completamente coperta da questa finissima polvere, che, fra un volo e l’altro, inizierà a raggruppare, impastandola con saliva e nettare, fino a creare due pallottoline che posizionerà nei “cestelli”, che sono una specie di segmenti uncinati posti vicino le zampe posteriori.
A carico completato, e ci vogliono circa un centinaio di fiori per farlo, l’ape torna a casa, dove il polline verrà sistemato nelle cellette, in posizione adatta ad essere utilizzato per l’apporto proteico necessario a far crescere le nuove larve.
Due cifre: una pallina di polline pesa circa 5 milligrammi; sono necessarie circa cento-centocinquanta visite di un’ape ai fiori per completare un carico; il fabbisogno medio di un alveare, all’anno, è di circa 30 chilogrammi. Fatevi due conti.
A fronte di tutta questa fatica, come facciamo noi a prenderci la sostanza di sole?
Con la furbizia, naturalmente. E’ caratteristica dell’uomo sopperire alla propria inferiorità rispetto al regno animale (e vegetale) usando quel che alcuni definiscono ingegno e altri frode: studiando le abitudini e le caratteristiche dell’animale o della pianta e trovando immancabilmente il punto debole, e spesso però perdendo di vista il fatto che è questo stesso comportamento ad essere un  punto debole, alla lunga: il predatore fa così.
Ma io divago.  Ci sono alcuni modi per recuperare il polline: si basano tutti sul fatto che l’ape tende a finire quel che ha iniziato: quindi, se è carica di polline, lo vorrà portare nell’alveare; la porta di entrata viene quindi ostruita da una griglia con dei fori che permettono appena il passaggio della bottinatrice: la pallina di polline si staccherà e cadrà in un cestello sottostante.
Le trappole possono essere poste all’entrata o, una volta ostruita completamente questa, può essere messa sul tetto, sotto il coprifavo, ma il discorso non cambia.
Di fatto si sottraggono alla famiglia scorte proteiche, e bisogna stare attenti a non indebolire troppo la covata, dunque; tutte le pratiche apistiche, di fatto, indeboliscono la famiglia, tuttavia, strutturati come sono gli alveari, e con la dovuta intelligenza, la sottrazione del miele non è dannosa, se fatta nel rispetto delle esigenze dell’ape.
Ma prelevare polline, per non parlare della pappa reale, di cui magari faremo cenno una prossima volta, è un’influenza più marcata sulla conduzione della famiglia: come se il nostro datore di lavoro dicesse: “scusa, ma questo mese ti prelevo un decimo dello stipendio, perché me lo metto via per l’inverno”.
Gli apicoltori che producono polline per venderlo ne trattengono, con le trappole, circa il 10-15%: può sembrare una piccola percentuale ma non lo è. Facendo due conti, vuol dire che posso trarre circa tre chili di polline all’anno per alveare…
Così le volte che decido di farmi una scorta di polline per l’inverno saltello da un alveare all’altro, lasciando la trappola un giorno solo per alveare, e stando ben attento a metterla solo a quelli più forti, nei giorni di calore o di luce: capite bene che non è comportamento da tenersi se si vuole fare business.
Tuttavia il polline è un concentrato di sostanze proteiche: 100 gr di polline equivalgono a circa 500 gr di carne; questo significa che un paio di cucchiai rasi coprono il fabbisogno proteico giornaliero di un adulto.
Ma non solo: nel polline vi sono glucidi, soprattutto glucosio e fruttosio, ma anche lattosio; acidi insaturi, con proprietà anticolesterolo; vitamine, in particolare A, B, PP, C; sali minerali, oligoelementi, enzimi, sostanze antibiotiche, una sostanza stimolante la crescita e la rutina, una componente in grado di aumentare la resistenza capillare.
Dunque sarebbe buona cosa assumere polline, dato che alla fine, sintetizzando, lo si può considerare tonico, riequilibratore, e anche disintossicante; ma penso che siano le proprietà strettamente terapeutiche che possano giustificare l’uso e quindi il moderato prelievo dalle famiglie: in fondo se non c’è sfruttamento è giusto chiedere aiuto alla natura.
Il polline contiene fermenti ed un antibiotico naturale simile alla penicillina, che lo rendono prezioso per l’intestino; gli aminoacidi presenti hanno una azione regolatrice sul sistema nervoso; ha un grosso potere antianemico, soprattutto nei bambini; stimola la crescita ed è prezioso nelle convalescenze.
Inoltre: nel momento della fecondazione dei fiori, il polline crea sostanze attive fra cui un enzima, che si chiama super-ossido-dismutasi, che agisce sulle cellule umane, proteggendole dai fattori degenerativi alla base dell’invecchiamento, nonché dell’arteriosclerosi, ed in grado di abbassare colesterolo e trigliceridi.
Adesso tutti a comprare polline, naturalmente…
Tuttavia, esseri utopici come siamo, fantasticare di una società in cui le api fossero diffuse mille e mille volte in più di come sono, in cui quasi ogni famiglia, o ogni gruppo, abbia alveari sufficienti per sé, senza necessità di super produzioni o sfruttamenti, con regine di ecotipi locali, integrate nel territorio come stanziali, senza nomadismo o commercio…con una alimentazione che vada verso una riduzione della produzione di carne e degli zuccheri raffinati perché si possono sostituire, con tutto l’indotto differente che ne deriva, in termini di etica e di qualità della vita, di occupazione e di responsabilizzazione…
Basta così: lo spirito non muore mai, è vero, ma anche il silenzio va bene.
Ora vi saluto, ci risentiamo fra qualche giorno, la prossima settimana; spero di darvi ragguagli su nuove smelature.
Magari anche due parole su propoli e pappa reale, già che ci siamo.

ape (1).gif.jpg

17 giugno 2011.
Buongiorno.
Oggi è brutto tempo e allora scrivo.
Dedicato a Gianfranca.
La propoli è una sostanza resinosa bottinata sulle gemme di svariate piante: soprattutto pioppi e conifere, ma anche salici, querce ed olmi.
La nostra amica stacca, con le mandibole, frammenti di resina balsamica e, per poterne fare palline per poi trasportarle, rigurgita polline ed enzimi, con i quali impasta la resina, e la stessa cosa faranno le api che, al suo ritorno all’alveare, la accoglieranno per aiutarla a liberarsi dall’appiccicoso carico.
Come si vede, le api manipolano e trasformano ogni cosa che importano, e più una cosa è trasformata, come ad esempio la propoli, più acquista valore biologico, chè viene passata e ripassata e continuamente arricchita.
Cosa se ne fanno le api della propoli?
Una marea di cose: soprattutto come materiale da costruzione, ad esempio per variare l’entrata dell’alveare, se prevedono un inverno particolarmente freddo; per riparare i favi rotti; per sigillare le fessure; per verniciare le pareti dell’arnia; per imbalsamare insetti o piccoli animali penetrati e da loro uccisi ma che non possono trasportare all’esterno; per disinfettare e sterilizzare le cellette destinate alla deposizione delle uova, e via dicendo.
La propoli si presenta come una resina che varia di densità a seconda della temperatura: sotto i 15 gradi è secca e friabile, oltre è gommosa e appiccicosa; ha un colore che varia dal giallo intenso al bruno scuro, passando per le sfumature del rosso; ha odore molto aromatico e così pure il sapore, da grezza, sa di cera, miele, resine: trovo che sia un sapore molto selvatico e aspro.
Ci sono sostanzialmente due modi per ricavare propoli dagli alveari: uno, il più semplice e naturale, è quello di raschiare, a fine stagione, i telaini dimessi, i melari e gli alveari stessi; ad esempio io ogni due anni sposto le famiglie in alveari nuovi o ripuliti, passati alla fiamma per disinfettarli: quando trasferisco la famiglia poi raschio la casetta ed ottengo una certa quantità di propoli.
Il secondo modo è quello di costringere le api a produrlo: le api sono molto puntigliose e non sopportano le fessure e gli spazi vuoti se sono più piccoli di una certa misura, sicchè è sufficiente appendere sul cielo dell’alveare una rete, di metallo o di plastica, tesa da un telaio: le api la riempiranno di propoli per tappare tutti i buchini; quando la rete è completamente satura si toglie, si mette in freezer qualche ora e poi si sbriciola.
Questa propoli è pura, di alto valore commerciale perché pulita, ma biologicamente povera perché è stata trattata poco dalle api; la propoli da raschiamento, invece, è grezza e sporca, piena di pezzetti di api, di cera e d’altro che andranno pazientemente tolti prima di sciogliere la resina, ma possiede un alto valore biologico, è stata passata e ripassata da migliaia di api, che l’hanno arricchita di enzimi e tracce di polline.
Indovinate che sistema uso io.
Tuttavia non è finita: bisogna poi trasformare la propoli in modo tale che possa essere utilizzata da noi umani, e qui la fantasia si spreca, specie con le nuove tecnologie.
In commercio si trovano propoli di svariati tipi: in soluzione glicolica, alcolica, in polvere, in estratto acquoso, estratta con etanolo (!), liofilizzata e chi più ne ha più ne metta.
Le estrazioni stesse variano, come percentuale di propoli, dal 3% fino al 33%, e questo vi dà la misura di come si possa ottenere, con la stessa quantità di resina, quantità molto diverse di prodotto finale. 
Nel caso delle estrazioni alcoliche, poi, vi è grande varietà di grado alcolico del solvente, da 45° fino ai 95°, per non parlare del tempo di estrazione, con variabili dai quattro giorni ai quarantacinque.
Come potete immaginare, grandi discussioni vengono fatte su quale sia la modalità migliore…
Io, per non saper né leggere né scrivere, mi attengo alla tradizione antica, in cui si utilizzava la proporzione del 33%, cioè una misura di propoli su tre di solvente, cosa che riduce di molto la quantità di prodotto finale, che risulta ovviamente più concentrato, e prolungo l’estrazione ai quaranta giorni, come ogni bravo alchimista fa.
Ritengo che il ventaglio di sostanze estratte sia in questo modo parecchio ampio, anzi, il più ampio possibile, perché il tempo serve in tutte le cose e quindi anche nell’estrazione della propoli.
Per quanto riguarda poi il grado alcolico dipende dall’utilizzo che poi ne farò: se per assunzione orale o per far unguenti o da miscelare col miele.
Le proprietà della propoli sono un lungo elenco: essenzialmente antibiotiche e antibatteriche, ma anche cicatrizzanti, anestetiche, antinfiammatorie; è sostanza altamente fungicida e quindi antimicotica ed antiparassitaria, tanto da essere utilizzata anche per le piante, con ottimi risultati.
Inoltre pare abbia proprietà antireumatiche, antiossidanti, immunologiche.
Basta? 
È utile in caso di anemia, soprattutto nelle affezioni dell’apparato respiratorio, nelle infezioni dentarie e dell’apparato urinario e genitale; è fantastico per la pelle, sia per eczemi che per screpolature, geloni e compagnia bella; in un paio di giorni vi secca l’herpes.
Gli antichi egizi la usavano per imbalsamare i defunti, ma a noi questa attività non interessa.
I violini stradivarius erano famosi per il suono perfetto, e si dice che la maestria del fabbricante fosse aiutata dalla propoli, sotto forma sia di vernice che di mastice.
Con buona pace di Gianfranca, quindi, non si arreca alcun danno alle api a prelevare propoli: al massimo le si fa lavorare di più; l’unico punto dolente è che la propoli, in quanto conservante, si comporta come tale sia con le sostanze buone che con quelle tossiche, quindi sarebbe meglio non utilizzare propoli proveniente da allevamenti dubbi o, magari, d’importazione, che probabilmente contengono antibiotici o altre schifezze.
 Vi sono poi una serie di variabili sulle modalità di assunzione, un po’ di leggende metropolitane sulle proprietà e un po’ di confusione su chi come e quanto se ne possa prendere, ma qui si va sulla personale interpretazione.
Indubbiamente le api fanno un gran lavoro per noi, che davvero dovremmo creare una bolla di protezione attorno a loro.
Molti sostengono, a partire da Einstein, che se le api scomparissero di colpo la razza umana non reggerebbe più di tre anni; non so se sia vero ma certo si avvicina alla verità, e certo dà la misura della sproporzione fra quel che le api fanno per noi e quel che noi facciamo per le api.
Ma questo è un discorso che si potrebbe fare per molte cose della natura.

ape (1).gif.jpg

20  giugno 2011.
Buongiorno.
Un prodotto delle api cui di solito non si presta particolare attenzione è la cera.
Un tempo la cera era considerata indispensabile per il quotidiano: candele per l’illuminazione, trattamenti per il legno, tavolette per la scrittura, un ampio uso cosmetico e terapeutico, un notevole, in alcune civiltà, uso religioso, veniva utilizzata nelle arti, scultura e pittura, e così via.
Oggi, fra prodotti di sintesi e materiali artificiali che è meglio non si conservino così se ne vende di più, la cera ha visto ridurre grandemente il proprio campo di intervento.
Inoltre un tempo l’estrazione del miele richiedeva la distruzione dei favi di raccolta, quindi la produzione di cera era notevole e rappresentava una entrata cospicua per l’apicoltore; oggi, con i moderni alveari, non è più necessario distruggere i favi e la cera viene ricavata soprattutto dagli opercoli, in fase di smielatura, e dallo scioglimento di favi vecchi o danneggiati.
Tuttavia la cera conserva quel che riceve, ed è buona norma igienica far sì che le api ne producano in continuazione.
Le api producono cera dopo esser state nutrici e prima di divenire bottinatrici, cioè fra il decimo ed il diciottesimo giorno di vita, e lo fanno trasudando dall’addome un secreto liquido che, a contatto con l’aria si indurisce; l’apina poi lo maneggia con le mandibole aggiungendo polline e propoli ed impastandolo.
Le ceraiole si organizzano in lunghissime catene, tenendosi per le zampine, passandosi il materiale di costruzione ed erigendo quella meraviglia dell’ingegneria che è il favo.
In natura, s’è detto, i favi vengono costruiti dall’alto in basso, allargando man mano una forma che ricorda quella di un cuore, nelle tre dimensioni, ed orientando la costruzione sull’asse sud- nord.
In un quadrato di dieci centimetri di lato vengono costruite, pensate un po’, circa quattrocento cellette, leggermente inclinate verso l’alto per ovvi motivi, e la distanza fra gli assi dei favi è di circa 37 millimetri.
Per produrre un chilo di cera le api consumano circa sei-sette chili di miele: questo vi dà una idea del perché sia conveniente, dal punto di vista economico, fare in modo che le api non producano cera.  Infatti oggi si vedono in giro telaini con favi di plastica stampata, certamente pratici e comodi per l’apicoltore: ma che tristezza per le api!
Inoltre la cera, pur essendo un materiale così meraviglioso, è, ridotta in fogli cerei da reintrodurre nell’alveare, estremamente fragile, e l’apicoltore moderno è frettoloso, e spesso parecchio interessato soltanto a far produrre molto le sue operaie; così, molto più sovente di quanto si creda, la cera utilizzata per costruire fogli cerei è addizionata a paraffina, introducendo così negli alveari un bel derivato dal petrolio, solo con la motivazione che i fogli sono più resistenti e si rompono di meno maneggiandoli.
Insomma, bisogna avere gli occhi anche dietro la testa…
Personalmente uso la cera in eccedenza in questo modo: la più parte la porto ad una ditta che la scioglie, la sterilizza e ci fa fogli cerei con cui rinnovare, l’anno dopo, i telaini, così so che negli alveari non metterò paraffina; quella che recupero dalla disopercolatura, cioè la cera bianca, di poche settimane, la utilizzo per farci unguenti; la restante la sciolgo e ci faccio candele ad immersione.
A volte, se mi gira, utilizzo pezzi di favo opercolato (ormai sarete assuefatti al gergo…) per fare vasetti, appunto, di miele col favo: si mette in bocca un pezzo di favo, si mastica e si gusta il miele così come lo hanno chiuso le api, senza centrifuga né altro; infine si sputa la cera e ci si bea.
La cera in sé, per il suo modo di essere stata creata, ha proprietà terapeutiche, soprattutto antisettiche: in particolare masticare favi, che sono fatti con cera recentissima, sfiamma le gengive, funziona con gli attacchi di sinusite e nei raffreddori.
Ma anche senza acciacchi va bene. Anzi.
Oggi non ho novità per quanto riguarda le sicule, né tantomeno per le bionde: sto aspettando un paio di giorni non umidi per andare a vedere se è possibile mettere gli apiscampo e recuperare un po’ di miele da smelare.
Volevo tuttavia proporre agli amici del GAS un paio di date nel mese di luglio, nel caso si volesse organizzare un salto collettivo qui da noi, come da un po’ si pensa di fare: per noi andrebbero bene sabato 2 o sabato 30, per una merenda sinoira, vedendosi verso il tardo pomeriggio, e se qualcuno avesse l’uzzolo di un incontro ravvicinato con le api me lo dirà, così ci organizziamo.
Ho maschere e guanti per tre o quattro persone, però non arrivatemi con i pantaloni corti…
Mi farà piacere presentarvi la mia famiglia, naturalmente, ma anche i cavalli, i cani e i gatti, ed anche un paio di topi domestici…
Mi dice Graziano che vi incontrerete fra un paio di giorni: ho voluto anticipare così si ha agio di pensarci.