lunedì 30 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del 29 maggio 2011

Buongiorno.
In questa domenica di sole ho poco da riferire, riguardo alle nostre: la visita di ieri ha rivelato che i melari non sono ancora opercolati del tutto e quindi si aspetta.
La differenza di carattere fra bionde e brune si sta rivelando appieno: in mancanza di nettare da bottinare le signore si fan nervose tutte, ma le brune esagerano.
In particolare l’alveare che avevo diviso perché stava andando in sciamatura, e che era il più discolo, ha dato origine dunque a due nuclei, che ho visitato in questi giorni, dopo il dovuto periodo di rispetto; ebbene, adesso abbiamo due casi limite in aviario, non più uno.
Giovedì avevo deciso di controllarli, per la prima volta, tanto per vedere se le regine erano sfarfallate e se stavano mettendo covata, e, non appena aperto, mi hanno assalito e, nonostante la tuta, son tornato, coda fra le gambe a casa, punto su braccia e mano (attraverso il guanto di cuoio…).
Ieri, con più tempo, son tornato, convinto che un simile comportamento fosse adatto solo a un nucleo orfano, e che quindi dovevo disperdere le api nell’apiario e recuperare i telaini con gli ultimi residui di covata da distribuire fra le casette.
Tuttavia volevo accertarmi che la regina non vi fosse davvero, prima di agire: così ho riaperto.
Stessa scena. Allora mi son detto che, se volevano il gioco duro, potevo anche io alzare il livello di scontro: son tornato a casa, ho riempito uno spruzzatore a pressione di acqua aromatica di lavanda (ne ho a secchi, deriva dalla distillazione) e son tornato alla carica.
Con lo spruzzatore in posizione di nebulizzazione ho riaperto la casetta e ho accolto le guerriere con una nube di acqua di lavanda, bagnandole ben bene, quelle che stavano uscendo e quelle in volo, fino a convincerle del tutto.
Nel frattempo nell’apiario si era diffuso un profumo di lavanda che pareva d’essere in un campo fiorito, e molte curiose alate venivano a ficcare il naso.
L’operazione, necessaria ma non il massimo, per le piccole, e da farsi assolutamente solo con tempo caldo e di mattino, così han tutto il giorno per asciugarsi, ha dato i suoi risultati e ho potuto, finalmente, accedere ai segreti del nido: ebbene, non erano orfane, solo particolarmente fetenti!
Ho trovato una piccola sezione di cellette con uova: piccola ma sufficiente a mostrare che la regina, del resto introvabile, fosse all’opera. Bene.
Ho chiuso e son passato all’altro nucleo, cui ho dovuto riservare lo stesso trattamento.
Qui però la situazione era diversa: c’erano ancora diverse celle reali intatte, evidentemente non c’era ancora stato lo farfallamento. Ho richiuso e son tornato a casa.
Certo le brune hanno un caratterino…
 Così ci tocca aspettare, per il miele, e noi aspettiamo.
Vi farò sapere a suo tempo.
Adriano.

mercoledì 25 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del 24 maggio 2011.

Buongiorno.
Oggi siamo attorno ai trenta gradi. All’ombra.
Dico: immaginate di essere in venti-trentamila in un cubo di legno alto e largo e lungo, facendo le proporzioni, una cinquantina di metri o poco più, peraltro intasato da immense pareti fatte di cellette  piene di nascituri, miele, polline, dove non è previsto che resti vuoto neppure uno spazio; fuori ci sono trenta gradi all’ombra, e dentro? Con tutta quella cera non si scherza: si potrebbe sciogliere da un momento all’altro e addio…
Che fate? 
Non so voi ma io me ne andrei al volo!
Eppure le nostre, brune o bionde che siano, eroicamente difendono la casa e la covata e le scorte e se stesse: si mettono tutte orientate in un’unica direzione, una dietro l’altra, fianco a fianco, si ancorano con le zampette al pavimento o alle pareti o dove capita e frullano le ali all’impazzata; il risultato è una continua corrente d’aria fresca e asciutta che entra e che fa uscire aria calda e umida.
Poi, la sera, come brave operaie, prendono il fresco fuori casa, a guardar le lucciole, che cominciano a girare, e le stelle, che in queste notti calde e limpide par d’essere ai tropici; si mettono fuori, “fan la barba”, si dice, stanno cioè tutte appese le une alle altre, e lentamente si muovono, si spostano, facendo sentire un sommesso brusìo continuo, come di un chiacchiericcio.
E par proprio che la giornata sia finita, quando si commenta e si parlotta di quel che è successo e di quel che succederà domani, e poi tutte a nanna, ragazze, che domani c’è da cercare nuovo nettare: l’acacia è finita.
E aprendo in questi giorni, che il grande flusso stava finendo, si potevan vedere chiaramente le danze di comunicazione delle esploratrici, che portavano nell’alveare le notizie, e le altre che le stavano ad ascoltare, e poi una prendeva a danzare come aveva visto, a diffondere la notizia, e insomma, se si pensa che così comunicano, c’era davvero un gran daffare fra lavorare e ascoltare e parlare e chiedere e poi le nuove che continuano a nascere e quel polline da spostare e voi andate al piano di sopra con quel nettare e si può aumentare la ventilazione, santiddio?, si muore dal caldo…
Ora abbiamo dunque l’acacia nei melari, e anche nei nidi, del resto: non tutta è stata portata su, alcune famiglie han preferito tenerne un po’ vicino alla covata, e andranno ben sistemate prima dell’agosto.
Quanta ne abbiamo? Allora ecco la situazione: dei dieci originari abbiamo otto famiglie e quattro nuclei, oltre all’undicesimo che sta per essere promosso famiglia.
L’1, l’8, il 9 ed il dieci hanno in melario (con il 9 campione assoluto), a occhio, una sessantina di chili, forse qualcosa di più; il 2, il 3, il 4 hanno una decina di chili a testa che fa un totale di un centinaio di chili; il 5, al solito, gioca a fare il fanalino di coda con i suoi quattro-cinque chili, scarsi.
Ora che si fa? Si aspetta che sia ben asciutto, cioè a dire opercolato: ogni celletta ben chiusa con la cera come fosse una botticina. 
Se sabato mattina, aprendo i melari, vedrò che l’opercolatura è a buon punto, metterò gli apiscampo, che sono aggeggi che servono a far scendere le api ma non a farle risalire nel melario, fra nido e, appunto, melario, e verso lunedì si potrà togliere le cassette e spillare il miele.
Insomma, la settimana prossima potrò dirvi di venire ad assaggiare il vostro miele, anche se dovrà poi riposare un po’, prima di essere imbarattolato. Ma di questo abbiamo già parlato.

Purtroppo, però, non piove, e questo significa che, se non cambia il tempo, ci giochiamo il castagno e i fiori dei rovi e il tiglio; soprattutto il castagno, che, al di là del miele, serve anche a dare impulso alle famiglie per riprendersi e reingrossarsi, dopo il calo della cessazione dell’acacia.
Adesso come adesso non c’è in giro nulla, e in valle han falciato la medica, mannaggia!
Però per ora è andata bene, direi, e quindi speriamo continui così.
Fate la Danza della Pioggia, magari di notte pioggia e di giorno sole, già che ci siamo: quando si chiede, tanto vale chiedere bene.
Un saluto.
Adriano.

venerdì 20 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del 19 maggio 2011

Buongiorno.
Siamo alla fine delle grande ubriacatura annuale dell’acacia.
Ancora non è del tutto terminata, perché più in quota ancora ci sono fiori ed anche sui versanti, qua e là, alcune piante biancheggiano.
Sono state bellissime giornate: il ronzìo delle api che andavano a bottinare era intensissimo.
La mia casa è orientata a sud-est, e guarda in valle, e lo sguardo si allunga fino al Begua.
Si vede, in valle, il biancheggiare dell’acacia.
L’apiario è a monte, subito dietro la casa, un paio di piane più in alto: quando le api sfrecciano all’acacia, passano sopra la casa, e ci sono momenti della giornata, i più caldi della mattina, ad esempio, in cui il rumore è talmente intenso che a volte ti chiedi se per caso non sia in corso una sciamatura.
Ormai questa cosa, il rumore delle api, intendo, fa parte della nostra vita, come le feste che ci fanno i cani quando si torna a casa, o l’odore dei cavalli o, in questi giorni, il profumo delle ginestre in fiore. La presenza delle api ha qualcosa di rassicurante: sembran dirti che la vita continua; a saperle guardare sono presenze attive: le vedi se sono indaffarate, o annoiate, se vanno a giro a curiosare o se hanno uno scopo; se sono nervose perché cambia il tempo o se, dopo la pioggia, il tempo si rimetterà subito: son le prime a uscire, con le ultime gocce, se verrà bello.
C’è stato un anno che mi erano morte tutte le famiglie, anche se in realtà ormai ne avevo ben poche, solo un paio: bene, nelle prime soleggiate di febbraio mi mancava il ronzìo, c’era qualcosa che non andava, in quel silenzio; era come un disagio in cui cercavi qualcosa.
Era impossibile non avere api: andai subito a cercare nuovi nuclei e ad aprile quattro nuove famiglie si aggiravano attorno a casa.
Ora, che fra bionde e brune dietro casa siamo a una ventina di casette, la presenza è forte, e va bene così.

Temo dunque che, anche con le sicule, siamo riusciti a fare un po’ d’acacia, per gli amanti del genere.
Ancora non riesco a stimare quanta ma, a occhio, direi che settanta-ottanta chili dovrebbero esserci; in famiglia dicono che sono sempre avaro, nelle previsioni e nelle stime, e secondo me sotto sotto pensano che lo faccio per scaramanzia: io mi guardo bene dal confermare.
Tuttavia la fioritura ancora non è terminata, e i nidi sono ancora in parte pieni di nettare, che dovrebbe essere portato nel melario.
Parlavo ieri con un amico a Finale, che per lavoro è a contatto con molti apicoltori liguri, e mi diceva che molti si stanno lamentando di questa stranezza di avere i nidi pieni di miele e i melari semi vuoti; se ricordate ve ne avevo parlato, quando dicevo che le sicule non stavano andando a melario.
Bene, parimenti è successo a molti altri: ognuno dà la sua spiegazione, naturalmente, ed è divertente, fra gli apicoltori, ascoltare le motivazioni che ognuno si dà di uno stesso fenomeno.
A volte la fantasia si scatena, altre volte è molto istruttivo, altre ancora è consolatorio.
Le api, però, si fan beffe degli sforzi dell’uomo di capire: fan quel che vien loro dettato da tutti i segnali e dall’atmosfera della natura attorno: temperatura, umidità, pressione, andamento delle fioriture, e un’infinità di variabili che noi non ci sognamo neppure di comprendere, non solo separatamente, nonostante barometri, termometri e meteo vari, reumatismi compresi, ma soprattutto nella loro complessità e interazione, intenti come siamo a capire con il cervello e disabituati come siamo a percepire con altri sensi; infine staccati dall’ambiente, e immersi in artifici quotidiani ed eternamente pensanti.
Stare in mezzo all’apiario, con il mantra delle api che incessantemente recita, fra alti e bassi e intensità e pressioni diverse, mi ha sempre dato, già lo dissi, l’immagine della meditazione: il dialogo interiore che, come per magia, si interrompe e lascia spazio ad altro.
Ma forse il ronzìo che avvolge è solo il veicolo esteriore di un contatto, un dialogo con una parte della natura, non diverso dalla sensazione di appartenenza che si abbia, ad esempio, in alcuni momenti di particolare intesa con il cavallo, a giro nei boschi, o magari in immersione a scambiare affettuosità e giocare con pinnuti  o polpi: ognuno avrà la sua.
Ma io divago, come al solito. Sarà l’età.
Vi aggiornerò sabato o domenica, dopo la mia solita assenza per lavoro, e avrò, penso, una immagine definitiva di questa storia dell’acacia, che ormai durerà ancora un paio di giorni o tre, e un quadro delle famiglie, che visiterò, tempo permettendo, sabato mattina, così vedremo se ci saranno altre casette da dividere, altre febbri da convogliare o da lasciar scorrere, e infine dovremmo avere un’idea precisa del miele a melario.
Grazie.
Adriano.

martedì 17 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del 16 maggio


Buongiorno!
Non si può andar via un paio di giorni in più del solito che subito succede qualcosa…
E dire che prima di partire avevo controllato tutto, casetta per casetta, perché so che in questa stagione due giorni possono fare la differenza: e difatti…
Allora, per ordine: prima le belle notizie.
Si son decise, alfine, le famiglie, a salire a melario: tranne il 5, meschineddu, tutte quante hanno portato acacia al piano di sopra. Alcune timidamente, cioè il 2, il 3 ed il 4, altre vigorosamente.
Va così, con le api; evidentemente ad un certo punto il numero delle bottinatrici è esploso (ci sarà stata una ovodeposizione particolarmente abbondante 30-35 giorni fa), in concomitanza c’era l’acacia in piena fioritura (ah, che caso…) e così l’alveare fa festa, e noi con lui.
Oggi pomeriggio ho messo il secondo melario all’1, all’8, al 9 ed al 10, che in questi giorni che ero via han deciso di farmi una sorpresa e hanno riempito il primo.
Non è una raccolta di quelle da segnare sugli annali ma, per come eravamo partiti, non ci si può lamentare; a dire il vero, non ci si dovrebbe mai lamentare, con le api.

E la cattiva notizia? 
E’ il tradimento del 7, il mio preferito, quello che più si era espanso, aveva già un melario quasi pieno giovedì scorso. L’avevo aperto, come del resto gli altri, e tutto andava bene: gran covata, su sette telaini belli compatti, tante api, anche tranquille, considerando il carattere siculo; sul fondo delle celle non c’era pappa reale, che se ci fosse sarebbe sintomo di probabilità di imminente sciamatura. Insomma, nulla mi induceva a credere che le cose sarebbero potute cambiare.
E invece stamani apro l’alveare e trovo, a fronte di una eccezionale importazione, tanto che si erano costruite il secondo melario e già vi avevano portato circa due o tre chili di nettare (in quattro giorni…), trovo circa una dozzina di celle reali! Ma come!
Così toccava decidere che fare.
Le celle avevano pochi giorni, naturalmente: tutte ancora aperte, con il fondo di pappa reale in cui nuotavano piccole larve che sarebbero diventate regine; alcune appena accennate, altre già lunghe più di un centimetro.
Cerco la regina, per vedere come sta, come è, e per sentire se mi ispirava una decisione in merito; non la trovo. Faccio passare una seconda volta tutti i telaini, e niente: si è nascosta.
Certo, una regina nei giorni che precedono la sciamatura è più magra, perché non le viene dato nutrimento, ma proprio non trovarla…
Decido di smagrire comunque la famiglia e tolgo due telaini di covata; elimino da questi telaini le celle reali (mi pappo la pappa…) e li metto nel nucleo che avevo fatto di sicule, ricordate?
Così adesso posso mettere il nucleo nell’alveare grande, gli metto sopra il più vuoto dei due melari del 7 e creo la famiglia 11. Punto. 
Torno a cercare la regina nel 7, e di nuovo non la trovo. Decido che è tardi e che sono stanco, così chiudo l’alveare, dal quale tornerò nel pomeriggio, e finisco di visitare gli ultimi tre, chè, a questo punto, non si sa mai…
Nel pomeriggio torno alla carica, ma le api sono molto più nervose, e, nella casetta violata, sono comunque tantissime. Cerco, facendo passare altre due volte i telaini ma nulla.
Mi arrendo: decido di creare la finta sciamatura e spacco in due la famiglia.
Ci sono ancora sei telaini di covata che pongo in due piccoli alveari, cui domani darò scorte, facendo attenzione a togliere le celle reali costruite in mezzo alla covata e di conservare invece quelle sul bordo: ogni nuovo nucleo ha così tre o quattro celle; neppure in queste operazioni fa la sua comparsa la regina.
Ora non resta che aspettare; non aprirò i nuclei prima di quindici giorni, calcolando una settimana perché la regina sfarfalli, uccida le altre e faccia il volo nuziale, un paio di giorni di abbuono e un altro paio di giorni per cominciare a deporre.
Quando aprirò vedrò come è andata: se le nuove regine sono entrambe in salute, se la vecchia è rimasta nascosta in uno dei due nuclei (ma in questo caso, dato che il posto è diverso e dato lo sconvolgimento, dovrebbe essere passata la febbre) o se ho fatto una stupidata.
Se tutto va bene, alla fine di questa storia abbiamo un alveare, cioè l’11, forte e già con melario mezzo pieno, e due nuclei che potrebbero diventare famiglie in estate: non produrranno, ma saranno pronte per il prossimo anno.
Certo, sarebbe stato meglio se non fosse successo, ma tant’è…
Dove è stato il mio errore? Avrei dovuto considerare che si stava accrescendo troppo in fretta, e avrei dovuto indebolirlo di più di quel che ho fatto, ma del senno di poi, si sa, son pieni i melari.
Ora vi saluto, e son contento che abbiamo un po’ di miele: fossi solo io, ma ho da render conto, e la cosa non mi è abituale.

Adriano.

lunedì 16 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettini del 9 e 12 maggio

9 maggio 2011.

Buongiorno.
Visto che, fra un pochino, le nostre dovrebbero fare il lavoro per cui le abbiamo assunte, parliamo un po’ della raccolta del miele.
Forse non a tutti è chiaro come si forma il miele: qualcuno può pensare che, semplicemente, le api raccolgano il miele dai fiori e lo trasportino nell’arnia, ma non è proprio così.
Innanzitutto bisogna sapere che le api trasformano in miele due prodotti della natura: il nettare, che viene raccolto dai fiori, siano essi di campo che di pianta, e la melata, che viene prodotta in altro modo che poi vedremo.
Parliamo ora del nettare. L’ape bottinatrice, con una scelta generalmente collettiva di cui più avanti parleremo, e con strumenti di rilevazione al cui confronto i droni di cupa attualità sono giocattolini, trova il fiore che cerca; succhia il nettare e lo deposita nella borsa melaria, che è semplicemente una piccola cisterna nel suo corpo. Alcuni pensano che, in qualche modo, l’ape digerisca il miele, o che lo trasformi in modo simile a quanto noi facciamo, ma non è così: piuttosto, nell’operazione descritta, vengono aggiunti  al nettare dei secreti ghiandolari - così pure, a volte, per poterlo suggere, l’ape deve “diluire” il nettare con quella che potremmo chiamare saliva, per fare un paragone con il nostro organismo -, in modo simile alla mamma che, per dare i primi alimenti solidi nello svezzamento, mastica il cibo, arricchendolo della saliva, per darlo al bimbo, cosa che anche i lupi fanno, ad esempio; o parimenti ad alcuni uccelli, che rigurgitano il cibo, però in questo caso trasformato.
Comunque, una volta riempita la borsa melaria, la bottinatrice torna all’alveare, dove consegna il nettare raccolto alle api dell’arnia, che a loro volta lo arricchiscono con i loro secreti ghiandolari, e che lo depositeranno nelle celle, dove infinite volte verrà “manipolato”, ripreso e rimesso, fino a diventare miele: tenete conto che il nettare raccolto può avere un’umidità del 70-80%, mentre il prodotto finale, pronto per essere conservato nelle celle opercolate, non supera mai il 19-20%.
Oltre a queste manipolazioni dirette, le api devono tenere costantemente l’aria, all’interno dell’alveare, asciutta, e così “ventilano”: ancorandosi con le zampette e orientandosi tutte in certo modo, frullando le ali da ferme creano una corrente d’aria che esce e porta fuori l’umidità; in certe giornate di raccolta abbondante e di caldo umido, in apiario c’è un profumo di miele che sazia.

Ora, qui casca un altro asino, per dir così: bisogna capire cosa si intende per miele maturo.
Vi riporto, per ampliare un po’ il discorso, un paragone che l’apicoltura biodinamica fa e che a me sembra importante per innalzare la nostra comprensione sugli alimenti; infatti non è sufficiente parlare di biologico, bisogna anche parlare di capacità nutritiva.
Bene, sapete che le celle sono a forma esagonale, ed in natura l’esagono è poco diffuso; i cervelloni dicono che le api fanno le celle esagonali perché così risparmiano spazio e, con minor dispendio di materiale e lavoro, creano costruzioni robuste; naturalmente, ciò è vero, ma non può essere il motivo di base, bensì una conseguenza, altrimenti bisognerebbe pensare che le nostre abbiano fatto studi di architettura: tuttavia son sicuro che qualcuno, malizioso, stia pensando che qualche architetto dovrebbe, invece, andare studiare a scuola dalle api…
In natura un’altra manifestazione ha struttura esagonale, ed è il cristallo di quarzo, SiO2, per la precisione scientifica, cioè Biossido di Silicio.
E’ interessante constatare che, in quasi tutte le culture native, che sono poi quelle che avevano, nei confronti della natura, una comprensione che non derivava dagli studi ma dalla vicinanza, il cristallo di quarzo veniva, e viene, tenuto in grande e particolare considerazione: i Nativi Americani, ad esempio, lo definivano come “le cellule cerebrali di Madre Terra”; per il suo particolare modo di formarsi veniva considerato il minerale che più aveva a che fare con la capacità di conservare la memoria, memoria del posto in cui era cresciuto, del tipo di energie con cui è venuto in contatto, e così via. Molto più prosaicamente, il silicio è utilizzato nei microchip, per le spaventose “memorie” dei nostri computer, compreso quello con cui sto scrivendo queste note; molto meno prosaicamente, al cristallo di quarzo vengono, da tutti coloro che studiano le cose meno visibili del nostro mondo, attribuite capacità particolari, come, ad esempio, l’ampliamento del tipo di energia che possiede chi lo sta usando.
Tuttavia, per non sforare troppo dal discorso che ci interessa, e concludendo sui cristalli, la forma più completa, per dir così, del cristallo di quarzo è quella che, in gergo, viene definita bipolare, cioè il cristallo che, nella sua struttura esagonale, ha non una ma due punte, e che possiede, appunto per il completamento del suo percorso, entrambe le polarità: come la Terra, che ha polarità diverse al polo Sud e a quello Nord.
Bene, la cella, in cui viene formato il miele, ed anche quella che ospita l’apina che nascerà, non solo ha forma esagonale, ma ha il fondo che termina a punta, e, quando viene opercolata, cioè chiusa, assomiglia in modo definitivo ad un cristallo a doppia punta.

Ma noi stavamo parlando del miele maturo, e della sua capacità di nutrimento e del suo potere di guarigione.
Normalmente, fra gli apicoltori, si dice che il miele sia maturo quando, sollevando il favo orizzontale, e dando una scossa, non cola fuori dalle celle, e certamente tutti sanno che è meglio aspettare che le api le chiudano.
Cosa può significare questo parallelismo con i cristalli? Che il miele, come ogni cosa che si forma, ha un processo che ha un inizio ed una fine: ha un inizio nel fiore, come nettare, poi una trasformazione passando di ape in ape, poi una maturazione, depositato nelle celle fino a non essere trasformato più, infine un completamento quando viene opercolato, ed è solo a questo punto che è un nutritivo, quando ha completato il suo ciclo e definito il suo essere.
Così possiamo certo dire che il miele sia maturo quando ha il 19-20% di umidità, ma possiamo dire che sia davvero un nutrimento e che abbia  proprietà non solo antipatogene, ma anche più sottili  solo quando sia stato opercolato.
Beh, direte voi, che ci cale? Ci cale che, come sempre, l’uomo ha messo lo zampino: ha inventato i deumidificatori.
A cosa servano lo capite da soli, il perché si usino merita due parole.
Le api sono fedeli ad un tipo di nettare fino a che si trova in proporzione maggiore rispetto ad  altro tipo; quando la proporzione si avvicina al pareggio importano entrambi i tipi, poi passano a quello che, a sua volta, primeggia.
Se io voglio avere un monoflora puro, ad esempio l’acacia, devo togliere i melari prima che cominci la nuova importazione; tuttavia le api han bisogno di tempo, per asciugare il miele e per opercolarlo; oppure magari capita che in quel periodo piova, o venga aria umida dal mare, ed i tempi delle api allora si allungano, a volte anche di settimane: si va a vedere, e ancora, e ancora non hanno opercolato…; oppure uno ha trecento alveari, e non può certo perdere giornate ad aspettare che quelle poltrone alate si sbrighino: ha da fare, tempi da rispettare, e così via.
Così l’apicoltore moderno, quello che ha un sacco di macchinari, toglie i melari e smiela, perché tanto, col deumidificatore, farà rientrare il suo miele nei parametri della legge, che, giustamente,  proibisce di mettere in commercio miele che abbia più di una certa percentuale di umidità.
Con buona pace delle api, che si vedono sottrarre un lavoro non finito.
Io, quando facevo l’artigiano, in gioventù, provavo fastidio a non poter completare il lavoro che stavo facendo: avevo l’impressione che il separarmi dal prodotto, non finito esattamente come lo volevo, svilisse, in qualche modo, il mio operato e quindi me stesso; peggio ancora fu  quando, lavorando in fabbrica, mi occupavo solo di una parte limitata del processo produttivo: come a ripetere tante volte una parola, che alla fine perde di significato, così il mio gesto appariva, alla lunga, inutile, ed io con esso mi sentivo straniato.
Proveranno le api la stessa cosa? 
Infine, il processo di maturazione, per come lo abbiamo descritto, non è finito: cioè, lo è per le api, ma poi viene il lavoro dell’uomo.
Ma di questo, assieme alla melata, vi parlerò la prossima volta.

Le api? Le ho lasciate lavorare: qualche giorno senza aprirle va bene; entro mercoledì dovrò invece averle visitate tutte, a vedere che succede nel nido e a controllare i telaini-trappola (ricordate?) e a pareggiare se per caso qualche famiglia abbia deciso un’impennata di crescita e, infine, a sbirciare nei melari, a farmi cambiare l’umore a seconda di quel che trovo…
In fondo, ogni volta che si va a visitare le famiglie, non si sa mai cosa si troverà: c’è sempre, quindi, l’emozione della sorpresa, il fascino della scoperta…anche dopo tanti anni.
Adriano.




12 maggio 2011.

Eccomi qui, buongiorno.
La volta scorsa eravamo rimasti al compimento del lavoro delle api, per quanto loro spetta: ora tocca all’apicoltore, cioè, nel nostro caso, a me.
Quindi avremo, si spera, i melari pieni, o comunque opercolati, e, dopo aver con sottile artifizio fatto scendere le lavoratrici dal melario al nido, porteremo il melario, senza api, in laboratorio.
Qui smieleremo, cioè tramite centrifuga si estrarrà il miele dai favi, che poi andranno riportati dalle api per essere asciugati e puliti di fino, lo si filtrerà e lo si metterà a riposare in un contenitore di acciaio che si chiama maturatore.
In realtà il miele non deve maturare, ma riposare –evidentemente non si sarebbe potuto chiamare il contenitore “riposatore”-, cioè deve stare fermo, ricomporsi dalla fatica della centrifuga e lasciar salire in superficie le microscopiche bollicine d’aria che si sono incorporate nell’operazione, le quali formeranno, per qualche giorno, una sorta di schiuma, che andrà asportata –io lo faccio un paio  di volte al giorno- fino a che non apparirà più.
A questo punto, di solito, il miele viene imbarattolato, e ciao.
Invece io, che non ho nulla da fare durante la giornata, mi metto a fare quel che una volta era abituale, cioè mescolo. Lo faccio a mano, con una lunga spatola di legno di faggio, a spirale partendo dall’esterno per arrivare al centro, e lo faccio per un po’ di tempo, diciamo quindici giorni o venti, mattina e sera per qualche minuto nei giorni di fiori e di frutti, secondo il calendario biodinamico.
A che serve? A finire bene il lavoro: il miele, mescolato in questo modo, quando cristallizzerà, lo farà a grana fine, anche se di quelle essenze che, lasciate a se stesse, cristallizzerebbero grosso.
Il lavoro del mescolamento andrebbe terminato quando, muovendola, dietro alla spatola si forma un solco nel miele, lungo circa una spanna. A quel punto si può imbarattolare, si mettono i barattoli al riparo dalla luce, ad esempio in scatole di cartone e ci si congratula per il lavoro fatto.
Di solito, però, se non ci sono immediatamente altre fioriture, quando si tolgono i melari, sarebbe bene dare un po’ di nutrimento alle nostre.
A questo proposito, bisogna sapere che, in assenza di scorte adeguate, e in autunno pena la morte della famiglia, bisogna nutrire le api, e la cosa migliore è, infine, lo zucchero: si fa uno sciroppo con zucchero bianco, perché quello di canna ha dentro sostanze che le api non riescono ad assimilare e da loro problemi intestinali (anche le api hanno la diarrea…); si fa una tisana con varie erbe a seconda della stagione: achillea, tarassaco, alloro, timo, lavanda, camomilla, ortica, equiseto…; si mischia e si somministra in quantità adeguate alla situazione.
E’ una leggenda metropolitana quella che racconta che il miele che cristallizza è miele di api a cui è stato dato zucchero: il miele cristallizza; tutti i mieli cristallizzano: alcuni tipi lo fanno dopo pochi giorni dalla raccolta, ad esempio il tarassaco ed il frassino, che solidificana addirittura nell’alveare; altri dopo mesi o anche più di un anno, come ad esempio l’acacia, che adesso per legge va chiamata robinia, e che tanti chiamano gaggìa.
Anzi: i mieli che trovate in commercio di grandi ditte, e non faccio nomi, liquidi e stabili, anno dopo anno sempre uguali, sono stati scaldati per stabilizzare il miele, per farlo, come dire, morire, cioè renderlo un alimento non più vivo.
Come i surgelati, belli, colorati e morti.
Quindi se vedete in giro miele cristallizzato significa, almeno, che non è stato pastorizzato né manipolato col calore: non vi stanno imbrogliando.

Sì, ma…la melata?
La definizione esatta sarebbe “miele di melata”, per distinguerlo dal “miele da nettare”.
Nelle pianure tutti gli anni, ma da noi solo ogni due-tre, ci sono periodi con condizioni particolari in cui c’è una grossa diffusione di afidi sulle piante; costoro, di mestiere, bucano con il rostro (si chiama così…) gli aghi di pino o, come da noi, la pagina inferiore delle foglie di quercia, e suggono la linfa che, in quanto animali, digeriscono, per poi rilasciare una sostanza zuccherina che le api –ma anche le formiche, che in certe zone creano veri e propri allevamenti di afidi- cercano, raccolgono, stimolando le bestioline, e trasformano in miele, che sarà colorato a seconda della pianta su cui è stato raccolto: ci sono melate verdi, in montagna; la nostra è marrone scuro: vien dalla quercia.
Dal punto di vista chimico è miele a tutti gli effetti, ma la differenza è che il miele viene dai fiori e non è digerito dall’animale, come abbiamo visto; la melata viene dalla pianta stessa e ha il passaggio dell’animale afide; la melata sembra essere più ricca in sali minerali, è tendenzialmente più densa, più pastosa e non a tutti piace. Io la conservo per l’inverno: la trovo una riserva ricostituente in situazioni di freddo e l’umido.

Adesso veniamo ai nostri alveari, visto che ho completato la visita che dovevo.
Situazione esterna: l’acacia è già sfiorita sulle piante giovani, è in piena fioritura su quelle medio-alte, e le piante più vecchie e quelle più in quota stanno iniziando adesso a fiorire.
Situazione interna: sui dieci alveari, il 6, il 7, il 9 ed il 10 sono andati a melario, cioè le api sono salite a deporre il miele, anche se davvero pochino pochino, a parte il 7 che è in testa e ha quasi completato un melario; l’1,il 2, il 3, il 4 e l’8 sono adesso in procinto di imbiancare e quindi non sono ancora saliti; infine il 5, meschino, ha ancora covata solo su quattro-cinque telaini.
Vi do modo di fare un paragone: come sapete avevo alcune famiglie di ligustica dallo scorso anno ed ho preso alcuni nuclei di Buckfast e di ibride, per avere modo di capire le differenze.
Bene, su sei alveari, in totale, cinque sono andati a melario, ma ad oggi lo hanno già quasi riempito, ed uno è rimasto indietro, iniziando ad imbiancare ora.
Ancora: avevo apposta fatto tre nuclei, uno di sicula, uno di Buckfast ed uno di ibrida, praticamente nello stesso momento, cioè a dire nell’arco di circa una settimana; il nucleo di ibrida adesso ha quattro telaini di covata, la Buckfast ne ha tre e la sicula due.
Conclusioni? Nessuna, per ora: stiamo ad osservare e accumuliamo informazioni.
Sembrerebbe che le sicule siano più lente ad ingrandire la covata, e certo producono meno cera, a parità di forze; tuttavia ancora non posso dire come siano a raccogliere, dato che ora non c’è paragone fra le varie famiglie: le bionde (Buckfast ed ibride) sono cresciute sicuramente di più delle nere.
Ma noi abbiamo iniziato questa avventura, dobbiamo ricordarlo, con l’intento non solo di fare miele, ma, anche e soprattutto, per cercare una via d’uscita dalla attuale situazione apistica compromessa e costretta ad usare sostanze chimiche o di sintesi, quindi ci interessa anche e soprattutto come andrà a finire la stagione della raccolta nel suo insieme, che da noi termina a fine luglio, con (a volte) uno strascico per la melata alla fine di agosto, e come sverneranno e come riprenderanno a febbraio. Quindi abbiamo davanti ancora nove mesi di verifica. 
Certo tutto ciò, ed è per questo che ho voluto tenere paragoni fra varie razze, ci servirà per decidere cosa fare il prossimo anno: a me per scegliere quale razza moltiplicare e a voi, e ad altri che volevano entrare nel gioco ma che abbiamo messo in stand-by per non fare una cosa troppo grande, per decidere se continuare o no.
Nel frattempo ci siamo conosciuti, e spero che queste note possano servire, al di là del rapporto con me, per ampliare la condivisione su un argomento che sta a cuore a tutti noi, cioè a dire il sapere con cosa si desidera nutrirsi, come lo si vuol fare e cosa ci sta dietro a quel che lasciamo entrare nel nostro corpo.
Dunque faremo miele?
Probabilmente acacia no, a meno che un paio di famiglie abbiano lo sprint finale su quest’essenza, ma anche in questo caso non sarà poi molto.
Staremo a vedere il tempo, se l’acacia prolungherà la fioritura o se ci pioverà sopra; se il tiglio seguirà a ruota o se inizieranno sciamature, eccetera.
Per chi tiene le api stanziali e non fa nomadismo, e magari dirò il mio parere su questa pratica, la dipendenza dalle variazioni del tempo meteorologico è assoluta.
Probabilmente avremo del millefiori molto chiaro, che poi, assieme alla melata, è la varietà che personalmente preferisco.

Ma, se foste in apiario in questi giorni di raccolta, vivreste una situazione che ripaga della fatiche e delle apprensioni: anzitutto nell’aria c’è un profumo di nettare che a volte è davvero inebriante, poi si respira una situazione di pace e di operosità allo stesso tempo: le apine sono indaffaratissime, e scivolano fuori dagli alveari così velocemente e, con un intento così determinato, si mettono sulla linea di volo che è uno spettacolo vederle; allo stesso tempo sono tolleranti, si lasciano avvicinare senza problemi –anche le sicule!!!- e ci si può camminare in mezzo lasciandosi avvolgere dal ronzìo e dalle vibrazioni dell’aria.
Sono giorni magici, questi, che non si ripeteranno più fino al prossimo anno: infatti, dipendentemente dall’essenza che viene raccolta, le api cambiano umore; ad esempio, raccogliendo il castagno, sono molto più irritabili, acide, si direbbe: infatti il castagno  contiene tannino, ed anche il veleno cambia: se vi fate pungere sotto acacia poco male, ma la puntura di un’ape che sta bottinando castagno brucia molto più intensamente.
Per compensare, osservando le api che bottinano sui fiori di tiglio, si vede con chiarezza che sono sotto effetto di sostanze stupefacenti: il tiglio infatti ha un blando effetto ipnotico e le api sembrano volerselo vivere tutto.
Così godiamoci questi giorni di raccolta dell’acacia: poi sarà il tempo del tiglio e del castagno, poi dei fiori del bosco, cioè a dire rovi, solidago, lampone e quant’altro, e speriamo che qualcuno lasci andare in fiore la medica; infine, forse, della melata.
Ci risentiamo la prossima settimana.
Adriano.


domenica 8 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del l'8 maggio 2011

Buongiorno.
Abbiamo posto i melari, anche se il momento non è ancora quello giusto: manca qualche giorno al calore.
Di solito si dice che il momento di porre i melari è quando le api “imbiancano”, e le nostre ancora non hanno “imbiancato”. Dunque?
Intanto spiego un po’ di termini, per chi non ne sapesse.
Bisogna sapere che l’alveare propriamente detto è una cassa che viene definita “nido”, per il fatto che la regina vi depone le uova; il nido accoglie da dieci a dodici telaini, di solito, secondo il tipo di arnia, e di questi telaini le api dispongono come credono: portano scorte di miele, polline, oppure mettono covata. Naturalmente, nel corso delle stagioni, la proporzione fra le scorte e la covata cambia: in inverno, se tutto è andato bene, le scorte saranno nei telaini esterni e sul bordo superiore di tutti i telaini, mentre la covata sarà al centro dei telaini interni. Durante la primavera la regina man mano deporrà sempre più uova, che occuperanno più spazio: i telaini di covata si allargheranno; verso maggio-giugno, cioè in questi giorni, la covata si espanderà al massimo, fino a raggiungere i sette, otto e anche nove telaini sui dieci soliti del nido; tuttavia in questa stagione c’è molta disponibilità di scorte: i fiori fioriscono, e le essenze mellifere producono parecchio.
Le api dunque, fra scorte e covata, hanno bisogno di spazio, ed ecco dunque che, al di sopra del nido, viene posto un melario, cioè una cassetta più piccola del nido, con dentro telaini più piccoli, la metà, destinati a raccogliere l’eccedenza di miele che le api producono; fra il nido e il melario viene posto l’escludiregina, che è in sostanza una griglia di metallo con le aperture di misura tale che le api possano passare ma la regina no: essa deve restare nel nido, altrimenti andrebbe a deporre in melario con conseguente confusione per l’apicoltore.

Un inciso: ho detto che di solito, nella arnie che sono, nel nostro paese, più diffuse, ci sono dieci telaini; le mie ne hanno nove: anni fa ho preso questa decisione ed ora vi spiego il perché.
Le api sono degli architetti, precisine e metodiche, tuttavia creative e capaci di adattarsi a moltissime situazioni, hanno la mania delle misure.
Ad esempio, mettono propoli, di cui parleremo un'altra volta -altrimenti dovrei fare un inciso in un inciso e così via- solo in spazi più piccoli di una certa misura e più grandi di altra (ad esempio, in previsione di inverni particolarmente freddi, restringono addirittura l’entrata del nido con colate di propoli e cera); le misure delle celle sono fisse, così pure la loro inclinazione verso l’alto, e così anche gli spazi fra i favi.  Bene, in natura gli spazi fra i favi sono leggermente più grandi di quelli che possono essere in un nido da dieci telaini; si avvicinano di molto alla misura che avrebbero se ne mettessi solo nove, cioè più distanziati: le api hanno più spazio, si muovono meglio. Perché, dunque, sono stati messi dieci telaini? Perché si vuole di più: più covata, più forza, più miele. 
Anni fa c’è stato, nel mondo apistico, un grande dibattito su questo aspetto, ed un apicoltore ha brevettato una speciale griglia sfasata, cioè con differenti distanze in cui posare i telaini; io non ho seguito questa strada, perché mi sembrava troppo “umana”, un po’ cervellotica, ma ho rilevato la ricerca che costui aveva fatto sugli spazi vitali, mi è piaciuta e l’ho adottata; ho sostituito tutti i porta telaini dei miei alveari con altri che davano più spazio, e son contento della scelta.
Aggiungo anche che in natura, eccezioni a parte, di solito le api non facevano grandi famiglie: non le nostre razze, almeno; quindi un telaino in meno porta un po’ meno di guadagno all’apicoltore e un po’ più di confort alle piccole: quale sarebbe stata la vostra scelta? Chiuso l’inciso.

Ora, al momento in cui la covata si sta espandendo e le disponibilità di nettare sono abbondanti, le nostre devono da qualche parte depositare il raccolto, quindi “allungano” le celle dei telaini del nido; tuttavia lo fanno con cera nuova, bianchissima, che contrasta con la cera già esistente, più scura, dando un effetto di “imbiancatura” della parte superiore del nido.
Così l’apicoltore sa che le api han bisogno di più spazio per il miele e pone il melario.
Le nostre api hanno imbiancato? No, accipicchia, perché, nonostante l’acacia in parte fiorita, non c’è ancora il calore di cui vi parlavo, e temo che quest’anno, almeno in valle qui da me, non si presenteranno configurazioni fiori-calore che possano dare una grande raccolta.
Tuttavia, agli alveari più forti ho posto ugualmente il melario, un po’ perché ormai non dovrebbe mancare molto, un po’ perché di acacie fiorite in giro ce n’è, un po’ perché se sono forti e non vuoi indebolire devi dare spazio, e mettere un melario, se non da spazio al nido, almeno crea uno sfogo per le operaie.
Avrò avuto ragione? Forse avrete ormai capito che l’apicoltura non è, per fortuna, una scienza esatta, e che l’uomo propone e le api dispongono…

Una cosa che mi ero dimenticato di dirvi, parlando della differenza fra le sicule e le altre razze, è il profumo, perché le api hanno un profumo, anzi, ne hanno diversi, in diversi momenti dell’anno; non mi riferisco al profumo del miele che c’è nella casetta, naturalmente, ma proprio al profumo della famiglia, che è un misto fra odore di covata, di propoli, di pappa reale, di veleno, di api in sé, e altri fattori svariati, che cambia, nella stessa famiglia, al variare delle condizioni della stessa: spesso si capisce se una famiglia non sta bene proprio dall’odore.
Ora le sicule hanno un odore diverso dalle ligustiche: al primo momento mi pareva strano, ma adesso vedo che è proprio così.
Ho ancora qualche alveare di ligustiche che mi era rimasto, e ho messo anche in apiario un paio di famiglie di un’altra razza, la Buckfast, perché ho voluto comparare diverse possibilità allo stesso tempo, per decidere poi, il prossimo anno, se davvero le nostre sicule, nonostante l’aggressività, siano una soluzione al problema che cercavamo di risolvere; naturalmente poi vi illustrerò i risultati delle mie sperimentazioni.
Bene, dicevo dell’odore: le sicule hanno un profumo diverso; ligustiche e Buckfast sono molto simili fra loro, ma decisamente le sicule differiscono: hanno un odore più forte, più acido e più sottile, allo stesso tempo.
Anni fa, un amico, dal quale comperavo regine per fare nuclei, mi disse, mettendomi in mano le gabbiette con le reali, di sentire il profumo di rosa che emanavano: sentivo il profumo, anche se non mi sembrava di rosa, ma ugualmente piacevole e arcano.
Ogni animale ha un odore suo: anche le api.
Su queste note olfattive vi saluto, ci sentiamo fra qualche giorno, quando, come dice il calendario biodinamico, Mercurio passa nella costellazione dell’Ariete, il suo elemento preferito, seguito da Venere e Marte ed infine da Giove, stabilendo finalmente la conformazione adatta per avere giorni caldi; speriamo che le fioriture restino fino ad allora.
Altrimenti faremo un buon millefiori…
Adriano.

mercoledì 4 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del 4 maggio 2011

Buongiorno.
L’apicoltore, dicevamo, a questo punto, se si è goduto lo spettacolo della sciamatura, non può fare altro che raccogliere lo sciame in un piccolo alveare, fornirgli qualche telaino, magari dopo un paio di giorni, e stare a vedere come si comporta.
Se lo sciame non si è fermato in posizioni assurde, tipo a dieci metri di altezza, o avvolto attorno al tronco, o cose del genere, è piuttosto facile raccoglierlo, ed è anche una cosa divertente: le api sono assolutamente docili, e, con un po’ di pratica, sembra di condurre un gregge di pecorelle obbedienti…
Ben diverso è il discorso dell’apicoltore di fronte al problema sciamatura: evitarla o no? E, se sì, come?
A monte, tanto per dire, c’è la ricerca di selezionare ceppi che sciamino poco o nulla, e gli incroci che tanto hanno indebolito le api negli ultimi decenni sono iniziati con lo scopo, tutto umano, di avere famiglie che rendono molto, sciamino poco, siano docili, e che magari facciano anche il caffè.
Come le mucche, costrette nelle stalle, che ascoltano Mozart così si distraggono un po’ e fanno più latte, o come le galline nelle stie, o i maiali all’ingrasso…
Poi, mi pare anche logico che ceppi selezionati, con regine che devono soddisfare bisogni umani, e non importa se non vivono molto, siano sensibili più di altri a virus e schifezze varie.

Ma restiamo alla sciamatura: se tentiamo di sottrarre alle api o di annullare il meccanismo della sciamatura, facciamo un lavoro contro natura, che va nel senso di eliminare un atto di rinnovo, di pulizia, di auto selezione, un impulso, infine, che è qualcosa che sta da sempre nello spirito dell’ape: come se si andasse ad umiliare un aspetto caratteristico e fondamentale.

Ma, certo, la sciamatura è, per certi aspetti, una seccatura: costringe a lavorare di più, porta confusione nell’apiario, fa perdere raccolto. Per un apicoltore che ha qualche decina di casette non è in fondo un gran male, ma per chi ne ha centinaia…
Un anno, uno dei primi anni in cui questa passione mi aveva contagiato, avevo una trentina di casette, e ne sapevo ben poco di tutto: mi piaceva soprattutto il brusio sonoro e visivo che ti avvolgeva andando a lavorare in apiario; mi interrompeva il dialogo interiore, era come andare a meditare. Bene, ad un certo punto partirono le sciamature; io, lo sapete, sono in mezzo al bosco, e quell’anno non partirono solo le sciamature primarie, ma anche quelle secondarie e insomma, ricordo che al trentesimo sciame recuperato gettai la spugna: ero stufo di arrampicarmi sugli alberi a inseguire sciametti, e mi fermai.
Era evidente che stavo sbagliando qualcosa nella conduzione, mi ero perso uno o più passaggi importanti, avevo da imparare più di quanto pensassi.
Con la coda fra le gambe tornai alle mie casette, cominciai a mettere ordine, pian piano, in quell’insieme di famiglie smozzicate, regine vergini, e nuclei senza forza; cominciai a riunire, con pazienza, a eliminare regine in soprannumero e a ricompattare l’apiario. 
Ovviamente, non avevo capito i segnali che le api emettono, sempre.
Non è sempre facile parlare altre lingue…o almeno intuirne il significato.

Dunque, che fare?
Beh, penso che ognuno adegui le proprie azioni a quel che pensa, o a come desidera essere nel mondo, e quindi anche con le api accade così.
Ad esempio, una pratica molto diffusa è quella di cercare le celle reali e di distruggerle, pensando in questo modo di fermare l’impulso. Se va bene, dopo qualche giorno l’alveare è di nuovo pieno di celle reali, e di nuovo l’apicolture le toglie: “vediamo chi si stanca prima…”
In questo modo non togliamo l’impulso, ma soltanto lo impediamo, ponendo le api, come ogni animale di fronte all’impedimento di una sua caratteristica, di fronte alla scelta se adattarsi, snaturandosi, o se ribellarsi. Del resto anche per noi vige lo stesso meccanismo: ci ammaliamo quando non riusciamo ad armonizzare la nostra vita con quello che è la nostra natura, con gli impulsi interiori; certo, per l’uomo la situazione è più complessa e personalizzata, ma il discorso non cambia.
Comunque: posto che la sciamatura, dal punto di vista dell’ape, è la cosa migliore, e che l’eliminazione delle celle reali è quella peggiore, cosa c’è nel mezzo?
Un sacco di metodi, che ora non vi sto qui ad elencare, perché poi la fantasia dell’uomo si è sbizzarrita nel tentativo di trovare un compromesso fra esigenze così diverse: ve ne dirò un paio che uso io, che mi sembrano (per ora) quelli meno contrastanti l’impulso di riproduzione.
Il primo addirittura non impedisce la sciamatura: quando mi accorgo che una famiglia si prepara a sciamare, la tengo d’occhio; siccome la vecchia regina sciamerà uno o due giorni prima che nasca la nuova, il giorno della sciamatura io avrò l’alveare, un po’ confuso, in verità, con tante celle reali sparse sui telaini di covata.
Così mi godo lo spettacolo della sciamatura, e poi, con calma, mi recupero lo sciame; apro quindi la casetta che ha sciamato e valuto, a seconda di quel che trovo, se lasciare tutto così –nascerà una nuova regina che, dopo aver ucciso tutte le altre, farà il suo volo nuziale e darà vita ad una nuova famiglia- oppure se dividere in due i favi di covata, con relative celle reali, e dar così il via a due nuove famiglie.
Se l’alveare era molto forte, avrò alla fine una famiglia, quella sciamata, e due nuclei con regine nuove.
Se invece per motivi miei –tempo, non disponibilità ad esserci, altri alveari deboli, etc.- non desidero che sciamino, anticipo l’avvenimento: sottraggo la vecchia regina e la pongo in una arnietta con poca covata, mettendola al posto della vecchia famiglia; con i telaini rimasti mi comporto come sopra: le bottinatrici rientreranno nell’arnia della vecchia regina, aiutando la ricostituzione di una famiglia, di cui, dopo un mesetto, deciderò che fare; il o i nuovi nuclei verranno messi ai margini dell’apiario e si svilupperanno secondo la loro natura.
Tutto ciò sembra lineare, sulla carta, ma in realtà non è così: le varianti e le improvvisazioni, con le api, sono all’ordine del giorno, senza contare gli imprevisti del tempo meteorologico e gli influssi delle costellazioni, che danno, di una stessa azione compiuta in giorni diversi, esiti differenti.
Ma questa è un’altra storia.
Come dice Gianfranca: una storia fantastica, nel senso che davvero la natura, a saperla guardare, è fantastica; davvero le api danzano, per comunicare, e ronzano e vibrano in frequenze diverse a seconda di cosa stanno comunicando: e non possiamo definirlo un canto?

Le nostre sicule: su dieci alveari due sono su quattro telaini di covata, quattro su cinque e quattro su sei telaini di covata. Dice: perché non pareggi in modo da portarli uguali tutti quanti?
Dico: perché i due deboli hanno rivelato regine non all’altezza del loro ruolo: non depongono in modo omogeneo, soprattutto, oltre a deporre poco, cosa che è indice di scarsa qualità, per dir così. Do loro tempo, ma non scommetto più sul risultato, diciamo.
Sicchè, visto che fra poco dovrebbe partire l’acacia, ho preferito conservare qualche alveare particolarmente forte: faccio sempre in tempo a sottrarre un telaio di covata…
Strategie…con le api è difficile funzionino, ma a volte ci si becca.

Un saluto da Lodisio, ci sentiamo fra qualche giorno.
Se avete domande da fare, curiosità da soddisfare, dite pure: se posso rispondo volentieri.
Adriano.

lunedì 2 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del 1 maggio 2011

Buongiorno, eccomi qui, inesorabile.

Oggi parleremo di riproduzione.
Il fatto che la regina deponga delle uova e che queste si schiudano non assicura la sopravvivenza delle api: l’alveare è un “superorganismo”, per dir così, e la nascita di un singolo individuo, o di migliaia di singoli individui non c’entra con la riproduzione.
La famiglia deve clonarsi, propagarsi, moltiplicarsi: deve produrre un’altra famiglia.
Ma andiamo per gradi: con le api, infatti, ogni cosa è intersecata con molte altre che accadono a volte in contemporanea, a volte distanti nel tempo; tuttavia penso sia giusto cercare di capire la fisiologia energetica, per dirla difficile, del meta-organismo che è la famiglia, altrimenti non si arriva a capire, o ad intuire, perché siamo al punto di vedere morire il 90% delle famiglie in America, o il 60% in Francia, o, da noi, a macchia di leopardo, punte del 100% in alcune regioni in alcuni anni passati. E non è solo colpa dei neonicotinoidi.
Per fortuna non è sempre e dappertutto così, e l’ape ce la mette tutta, da parte sua, ed anche noi dovremmo.
Cercherò di costruire un puzzle, spiegando parti che poi si incastreranno con altre parti…
Intanto dovete sapere che, in natura, le api costruiscono i propri alveari in luoghi riparati, tipo alberi cavi, piccole grotte, sottotetti, mai per terra, e orientano i favi in direzione sud-nord e li costruiscono a forma di cuore tridimensionale.
Nelle casette che l’uomo ha costruito per loro, quadrate come le nostre case, le povere piccole cercano di riprodurre, in qualche modo, le forme ancestrali: il glomere è a forma di cuore, ed anche la covata, vista in prospettiva, ha grandi depositi sui favi centrali che man mano, verso l’esterno, diminuiscono di dimensione.
La regina, lungi dal regnare, si dà da fare come una matta a deporre, nelle celle rimaste libere dalle nascite o costruite ex novo dalle ceraiole, uova fecondate o no, a seconda se, dall’intelligenza del superorganismo, le viene l’impulso di creare femmine, che poi diverranno operaie, o maschi, cioè fuchi.
Ma, per svariati motivi, ad esempio l’età avanzata, o particolari situazioni interne, ad esempio il poco spazio, o anche per una sorta di ereditarietà, la regina, e con essa tutta la famiglia, in un periodo dell’anno che può variare da aprile a settembre, ma soprattutto in maggio e giugno, comincia ad essere turbata: le ancelle cominciano a tenerla a dieta, le nutrici danno più pappa reale del solito alle larve, le ceraiole si mettono a costruire cupolini tondi, le bottinatrici non sono più assidue nell’importare nettare, e così via.
La famiglia, come si dice, è preda della “febbre da sciamatura”, che, come dicevamo, è cosa non solo assolutamente naturale e geneticamente ovvia, ma anche indispensabile alla propagazione della specie.
Così, nelle speciali ed estemporanee celle tonde, la regina depone uova fecondate che verranno nutrite sempre e solo con pappa reale, e l’uovo, che normalmente avrebbe fatto nascere una comune operaia, darà come  risultato una nuova regina.
Di solito, nella fase della sciamatura, in un alveare vi sono più celle reali, anche dieci o dodici: un giorno o due prima che la nuova regina esca (la prima delle…), la vecchia regina raccoglie con sé una buona metà dell’alveare e sciama.
Di solito dalle dieci del mattino a mezzogiorno, massimo l’una, di una bella giornata soleggiata, si vede fuori dalla casetta un’insolita attività, un brusìo diverso dal solito; poi comincia un volo stazionario di numerose api attorno alla porticina, poi il brusìo aumenta, si fa cupo e forte, e, improvvisamente, un’infinità di api sembrano sparate fuori dall’alveare: non si riesce a vederle, tanto sono veloci; escono e si posizionano al di fuori, in una colonna verticale che ruota e cresce finchè tutte quelle che devono uscire lo hanno fatto, a formare una sorta di cilindro ruotante alto diversi metri fatto di api che cantano, piene di miele e ubriache di frenesia.
Ad un certo punto, come ad un ordine, il cilindro si compatta, prende una direzione, deciso, e si va a posizionare pochi metri più in là, su di un ramo, di solito: lì si appende e le api, nel giro di pochi secondi, si compattano a formare un glomere pulsante e sommessamente rumoroso, sostanzialmente innocuo (ci puoi mettere dentro la mano, non pungono…), composto da circa 10-25.000 api, a seconda della forza della famiglia e della stagione.
A questo punto succedono un sacco di cose: partono le esploratrici, in diverse direzioni, a fare il loro lavoro, per cercare un luogo adatto a formare la nuova residenza; quelle che sono rimaste basite dalla furia della sciamatura pian piano si radunano calme e tranquille; le esploratrici che tornano riferiscono e si fa assemblea: vengono valutate le proposte, espresse attraverso danze e movimenti vari del corpo, e discussioni più o meno lunghe vengono fatte per tutto il pomeriggio.
Se un accordo viene raggiunto, di solito il mattino dopo la nuova famiglia si mette in movimento per raggiungere la nuova sede, con lo stile già espresso (la nuvola “brusante”), altrimenti la discussione può andare avanti anche un paio di giorni o tre, ma è raro. 
Arrivate nel nuovo posto cominciano subito ad usare le scorte che si sono portate da casa: in breve qualche favo viene costruito e riempito col miele, così che la vita ricominci.

Fin qui la natura, ma… E l’apicoltore?
Dipende, naturalmente, dall’apicoltore!
Ma questo lo vedremo una prossima volta.
Per l’intanto: le nostre sicule stanno bene; sono certamente più reattive in tutto, anche agli sbalzi di temperatura e di afflusso di nettare: si fermano e riprendono più velocemente delle altre, mi sembra.
Sto aspettando ancora qualche giorno, perché anche qui in valle un po’ di acacia è fiorita, ma poca cosa, e i grandi alberi sono ancora indietro.
Ma non si può mai dire, di questa stagione: a volte in due giorni cambia tutto.
In ogni caso, siamo pronti con i melari.

A risentirci fra qualche giorno.
Adriano.

Adotta un alveare - Bollettino del 30 aprile 2011

Buongiorno a tutti.
Come si temeva, è arrivato un periodo freddo.
Che succede negli alveari quando fa freddo?  Dipende: dalla stagione, naturalmente, da quanto freddo fa, dalla durata del freddo, e via dicendo.
Ma, al di là di ogni variabile, le api, col freddo, fanno come noi, ipotizzando una situazione in cui non si possano accendere termosifoni o camini: si stringono le una alle altre.

Durante la stagione invernale, almeno nei nostri climi, si mettono tutte vicine vicine, con la regina nel mezzo, in una formazione che si chiama “glomere”, più o meno a forma tondeggiante, e fanno questa cosa: quelle che son fuori, nella parte esterna del glomere, e che quindi si raffreddano in fretta, dopo un po’ si spingono all’interno, lasciando il compito alle altre, che danno loro il cambio, e così via, in una rotazione lenta e continua.
Pensate che, anche se la temperatura esterna va sottozero, all’interno del glomere resta una costante di circa 30 gradi.
Tutto ciò costa, ovviamente, in termini di energia, e quindi le scorte vengono a poco a poco consumate, aspettando che il generale Inverno decida di concedere tregua.

Ma ora non siamo in inverno, direte voi; quindi, niente glomere! 
Esatto, tuttavia la tendenza allo stringersi resta: per mantenere calda la covata ci vogliono tante api, che la coprano, fisicamente, che la proteggano dagli sbalzi di temperatura; ora, in questa stagione la covata si estende, nei nostri alveari siculi, su cinque-sei telaini, sui nove che ci sono all’interno della casetta.
Magari nei più forti si allarga anche a sette.
E se per caso la temperatura scende troppo e non ci sono api a sufficienza a coprirla tutta?
L’alveare ragiona per la sopravvivenza: non resta che sacrificare…
Ci sono stati anni in cui trovavo, al di fuori dell’alveare, mucchietti di api neonate, larve, pupe, e non capivo che cosa fosse successo, dato che, aprendolo, la famiglia risultava sana ed attiva: semplicemente la famiglia aveva deciso di riscaldare una parte soltanto della covata, in modo da preservare quel che fosse possibile preservare, e di sacrificare il resto.
A noi può sembrare un gesto “disumano”?
Beh, in effetti sono insetti, tuttavia la meraviglia sta nella decisione presa collettivamente, e nell’esecuzione di un atto finalizzato e, per dir così, intelligente: come del resto ne vedremo molti altri, parlando di api.
Le api fanno così, e da quando l’ho scoperto ho meno problemi a sacrificare i favi di larve di fuco per preservare la famiglia dalla varroa.
Tocca ragionare come un’ape…

Ma, tornando a noi, il freddo di questi giorni avrà creato scompensi alle nostre palermitane?
Non lo so; domattina, se Giove Pluvio si prende la domenica libera, vado a vedere, chè dovrei proseguire con il “pareggiamento”, controllare le covate, sostituire alcuni telaini vecchi con nuovi da costruire, spiare se per caso, nonostante la giovane età delle regine, non vi siano segnali di febbre da sciamatura prossima ventura: non credo, anche perché i meteoesperti non danno un miglioramento del tempo nei prossimi giorni, e le api non partono, sapendo che ci sarà brutto.
Si collegheranno a MeteoValbormida?

Oggi pomeriggio piove e fa freddo, così , dopo aver preparato e pulito gli escludiregina, che spero di usare a breve (poi vi spiego), mi sono messo a scrivere: magari la prossima volta vi dico due parole sulla sciamatura, uno degli spettacoli più belli che le api ci possono regalare ma, per l’apicoltore molto focalizzato sulla produzione, una sciagura.
Penso che iniziate a sospettare che io non appartenga a quest’ultima categoria, e temo abbiate ragione.
Grazie per i bei commenti a queste mie note: fa piacere.
Adriano.