lunedì 16 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettini del 9 e 12 maggio

9 maggio 2011.

Buongiorno.
Visto che, fra un pochino, le nostre dovrebbero fare il lavoro per cui le abbiamo assunte, parliamo un po’ della raccolta del miele.
Forse non a tutti è chiaro come si forma il miele: qualcuno può pensare che, semplicemente, le api raccolgano il miele dai fiori e lo trasportino nell’arnia, ma non è proprio così.
Innanzitutto bisogna sapere che le api trasformano in miele due prodotti della natura: il nettare, che viene raccolto dai fiori, siano essi di campo che di pianta, e la melata, che viene prodotta in altro modo che poi vedremo.
Parliamo ora del nettare. L’ape bottinatrice, con una scelta generalmente collettiva di cui più avanti parleremo, e con strumenti di rilevazione al cui confronto i droni di cupa attualità sono giocattolini, trova il fiore che cerca; succhia il nettare e lo deposita nella borsa melaria, che è semplicemente una piccola cisterna nel suo corpo. Alcuni pensano che, in qualche modo, l’ape digerisca il miele, o che lo trasformi in modo simile a quanto noi facciamo, ma non è così: piuttosto, nell’operazione descritta, vengono aggiunti  al nettare dei secreti ghiandolari - così pure, a volte, per poterlo suggere, l’ape deve “diluire” il nettare con quella che potremmo chiamare saliva, per fare un paragone con il nostro organismo -, in modo simile alla mamma che, per dare i primi alimenti solidi nello svezzamento, mastica il cibo, arricchendolo della saliva, per darlo al bimbo, cosa che anche i lupi fanno, ad esempio; o parimenti ad alcuni uccelli, che rigurgitano il cibo, però in questo caso trasformato.
Comunque, una volta riempita la borsa melaria, la bottinatrice torna all’alveare, dove consegna il nettare raccolto alle api dell’arnia, che a loro volta lo arricchiscono con i loro secreti ghiandolari, e che lo depositeranno nelle celle, dove infinite volte verrà “manipolato”, ripreso e rimesso, fino a diventare miele: tenete conto che il nettare raccolto può avere un’umidità del 70-80%, mentre il prodotto finale, pronto per essere conservato nelle celle opercolate, non supera mai il 19-20%.
Oltre a queste manipolazioni dirette, le api devono tenere costantemente l’aria, all’interno dell’alveare, asciutta, e così “ventilano”: ancorandosi con le zampette e orientandosi tutte in certo modo, frullando le ali da ferme creano una corrente d’aria che esce e porta fuori l’umidità; in certe giornate di raccolta abbondante e di caldo umido, in apiario c’è un profumo di miele che sazia.

Ora, qui casca un altro asino, per dir così: bisogna capire cosa si intende per miele maturo.
Vi riporto, per ampliare un po’ il discorso, un paragone che l’apicoltura biodinamica fa e che a me sembra importante per innalzare la nostra comprensione sugli alimenti; infatti non è sufficiente parlare di biologico, bisogna anche parlare di capacità nutritiva.
Bene, sapete che le celle sono a forma esagonale, ed in natura l’esagono è poco diffuso; i cervelloni dicono che le api fanno le celle esagonali perché così risparmiano spazio e, con minor dispendio di materiale e lavoro, creano costruzioni robuste; naturalmente, ciò è vero, ma non può essere il motivo di base, bensì una conseguenza, altrimenti bisognerebbe pensare che le nostre abbiano fatto studi di architettura: tuttavia son sicuro che qualcuno, malizioso, stia pensando che qualche architetto dovrebbe, invece, andare studiare a scuola dalle api…
In natura un’altra manifestazione ha struttura esagonale, ed è il cristallo di quarzo, SiO2, per la precisione scientifica, cioè Biossido di Silicio.
E’ interessante constatare che, in quasi tutte le culture native, che sono poi quelle che avevano, nei confronti della natura, una comprensione che non derivava dagli studi ma dalla vicinanza, il cristallo di quarzo veniva, e viene, tenuto in grande e particolare considerazione: i Nativi Americani, ad esempio, lo definivano come “le cellule cerebrali di Madre Terra”; per il suo particolare modo di formarsi veniva considerato il minerale che più aveva a che fare con la capacità di conservare la memoria, memoria del posto in cui era cresciuto, del tipo di energie con cui è venuto in contatto, e così via. Molto più prosaicamente, il silicio è utilizzato nei microchip, per le spaventose “memorie” dei nostri computer, compreso quello con cui sto scrivendo queste note; molto meno prosaicamente, al cristallo di quarzo vengono, da tutti coloro che studiano le cose meno visibili del nostro mondo, attribuite capacità particolari, come, ad esempio, l’ampliamento del tipo di energia che possiede chi lo sta usando.
Tuttavia, per non sforare troppo dal discorso che ci interessa, e concludendo sui cristalli, la forma più completa, per dir così, del cristallo di quarzo è quella che, in gergo, viene definita bipolare, cioè il cristallo che, nella sua struttura esagonale, ha non una ma due punte, e che possiede, appunto per il completamento del suo percorso, entrambe le polarità: come la Terra, che ha polarità diverse al polo Sud e a quello Nord.
Bene, la cella, in cui viene formato il miele, ed anche quella che ospita l’apina che nascerà, non solo ha forma esagonale, ma ha il fondo che termina a punta, e, quando viene opercolata, cioè chiusa, assomiglia in modo definitivo ad un cristallo a doppia punta.

Ma noi stavamo parlando del miele maturo, e della sua capacità di nutrimento e del suo potere di guarigione.
Normalmente, fra gli apicoltori, si dice che il miele sia maturo quando, sollevando il favo orizzontale, e dando una scossa, non cola fuori dalle celle, e certamente tutti sanno che è meglio aspettare che le api le chiudano.
Cosa può significare questo parallelismo con i cristalli? Che il miele, come ogni cosa che si forma, ha un processo che ha un inizio ed una fine: ha un inizio nel fiore, come nettare, poi una trasformazione passando di ape in ape, poi una maturazione, depositato nelle celle fino a non essere trasformato più, infine un completamento quando viene opercolato, ed è solo a questo punto che è un nutritivo, quando ha completato il suo ciclo e definito il suo essere.
Così possiamo certo dire che il miele sia maturo quando ha il 19-20% di umidità, ma possiamo dire che sia davvero un nutrimento e che abbia  proprietà non solo antipatogene, ma anche più sottili  solo quando sia stato opercolato.
Beh, direte voi, che ci cale? Ci cale che, come sempre, l’uomo ha messo lo zampino: ha inventato i deumidificatori.
A cosa servano lo capite da soli, il perché si usino merita due parole.
Le api sono fedeli ad un tipo di nettare fino a che si trova in proporzione maggiore rispetto ad  altro tipo; quando la proporzione si avvicina al pareggio importano entrambi i tipi, poi passano a quello che, a sua volta, primeggia.
Se io voglio avere un monoflora puro, ad esempio l’acacia, devo togliere i melari prima che cominci la nuova importazione; tuttavia le api han bisogno di tempo, per asciugare il miele e per opercolarlo; oppure magari capita che in quel periodo piova, o venga aria umida dal mare, ed i tempi delle api allora si allungano, a volte anche di settimane: si va a vedere, e ancora, e ancora non hanno opercolato…; oppure uno ha trecento alveari, e non può certo perdere giornate ad aspettare che quelle poltrone alate si sbrighino: ha da fare, tempi da rispettare, e così via.
Così l’apicoltore moderno, quello che ha un sacco di macchinari, toglie i melari e smiela, perché tanto, col deumidificatore, farà rientrare il suo miele nei parametri della legge, che, giustamente,  proibisce di mettere in commercio miele che abbia più di una certa percentuale di umidità.
Con buona pace delle api, che si vedono sottrarre un lavoro non finito.
Io, quando facevo l’artigiano, in gioventù, provavo fastidio a non poter completare il lavoro che stavo facendo: avevo l’impressione che il separarmi dal prodotto, non finito esattamente come lo volevo, svilisse, in qualche modo, il mio operato e quindi me stesso; peggio ancora fu  quando, lavorando in fabbrica, mi occupavo solo di una parte limitata del processo produttivo: come a ripetere tante volte una parola, che alla fine perde di significato, così il mio gesto appariva, alla lunga, inutile, ed io con esso mi sentivo straniato.
Proveranno le api la stessa cosa? 
Infine, il processo di maturazione, per come lo abbiamo descritto, non è finito: cioè, lo è per le api, ma poi viene il lavoro dell’uomo.
Ma di questo, assieme alla melata, vi parlerò la prossima volta.

Le api? Le ho lasciate lavorare: qualche giorno senza aprirle va bene; entro mercoledì dovrò invece averle visitate tutte, a vedere che succede nel nido e a controllare i telaini-trappola (ricordate?) e a pareggiare se per caso qualche famiglia abbia deciso un’impennata di crescita e, infine, a sbirciare nei melari, a farmi cambiare l’umore a seconda di quel che trovo…
In fondo, ogni volta che si va a visitare le famiglie, non si sa mai cosa si troverà: c’è sempre, quindi, l’emozione della sorpresa, il fascino della scoperta…anche dopo tanti anni.
Adriano.




12 maggio 2011.

Eccomi qui, buongiorno.
La volta scorsa eravamo rimasti al compimento del lavoro delle api, per quanto loro spetta: ora tocca all’apicoltore, cioè, nel nostro caso, a me.
Quindi avremo, si spera, i melari pieni, o comunque opercolati, e, dopo aver con sottile artifizio fatto scendere le lavoratrici dal melario al nido, porteremo il melario, senza api, in laboratorio.
Qui smieleremo, cioè tramite centrifuga si estrarrà il miele dai favi, che poi andranno riportati dalle api per essere asciugati e puliti di fino, lo si filtrerà e lo si metterà a riposare in un contenitore di acciaio che si chiama maturatore.
In realtà il miele non deve maturare, ma riposare –evidentemente non si sarebbe potuto chiamare il contenitore “riposatore”-, cioè deve stare fermo, ricomporsi dalla fatica della centrifuga e lasciar salire in superficie le microscopiche bollicine d’aria che si sono incorporate nell’operazione, le quali formeranno, per qualche giorno, una sorta di schiuma, che andrà asportata –io lo faccio un paio  di volte al giorno- fino a che non apparirà più.
A questo punto, di solito, il miele viene imbarattolato, e ciao.
Invece io, che non ho nulla da fare durante la giornata, mi metto a fare quel che una volta era abituale, cioè mescolo. Lo faccio a mano, con una lunga spatola di legno di faggio, a spirale partendo dall’esterno per arrivare al centro, e lo faccio per un po’ di tempo, diciamo quindici giorni o venti, mattina e sera per qualche minuto nei giorni di fiori e di frutti, secondo il calendario biodinamico.
A che serve? A finire bene il lavoro: il miele, mescolato in questo modo, quando cristallizzerà, lo farà a grana fine, anche se di quelle essenze che, lasciate a se stesse, cristallizzerebbero grosso.
Il lavoro del mescolamento andrebbe terminato quando, muovendola, dietro alla spatola si forma un solco nel miele, lungo circa una spanna. A quel punto si può imbarattolare, si mettono i barattoli al riparo dalla luce, ad esempio in scatole di cartone e ci si congratula per il lavoro fatto.
Di solito, però, se non ci sono immediatamente altre fioriture, quando si tolgono i melari, sarebbe bene dare un po’ di nutrimento alle nostre.
A questo proposito, bisogna sapere che, in assenza di scorte adeguate, e in autunno pena la morte della famiglia, bisogna nutrire le api, e la cosa migliore è, infine, lo zucchero: si fa uno sciroppo con zucchero bianco, perché quello di canna ha dentro sostanze che le api non riescono ad assimilare e da loro problemi intestinali (anche le api hanno la diarrea…); si fa una tisana con varie erbe a seconda della stagione: achillea, tarassaco, alloro, timo, lavanda, camomilla, ortica, equiseto…; si mischia e si somministra in quantità adeguate alla situazione.
E’ una leggenda metropolitana quella che racconta che il miele che cristallizza è miele di api a cui è stato dato zucchero: il miele cristallizza; tutti i mieli cristallizzano: alcuni tipi lo fanno dopo pochi giorni dalla raccolta, ad esempio il tarassaco ed il frassino, che solidificana addirittura nell’alveare; altri dopo mesi o anche più di un anno, come ad esempio l’acacia, che adesso per legge va chiamata robinia, e che tanti chiamano gaggìa.
Anzi: i mieli che trovate in commercio di grandi ditte, e non faccio nomi, liquidi e stabili, anno dopo anno sempre uguali, sono stati scaldati per stabilizzare il miele, per farlo, come dire, morire, cioè renderlo un alimento non più vivo.
Come i surgelati, belli, colorati e morti.
Quindi se vedete in giro miele cristallizzato significa, almeno, che non è stato pastorizzato né manipolato col calore: non vi stanno imbrogliando.

Sì, ma…la melata?
La definizione esatta sarebbe “miele di melata”, per distinguerlo dal “miele da nettare”.
Nelle pianure tutti gli anni, ma da noi solo ogni due-tre, ci sono periodi con condizioni particolari in cui c’è una grossa diffusione di afidi sulle piante; costoro, di mestiere, bucano con il rostro (si chiama così…) gli aghi di pino o, come da noi, la pagina inferiore delle foglie di quercia, e suggono la linfa che, in quanto animali, digeriscono, per poi rilasciare una sostanza zuccherina che le api –ma anche le formiche, che in certe zone creano veri e propri allevamenti di afidi- cercano, raccolgono, stimolando le bestioline, e trasformano in miele, che sarà colorato a seconda della pianta su cui è stato raccolto: ci sono melate verdi, in montagna; la nostra è marrone scuro: vien dalla quercia.
Dal punto di vista chimico è miele a tutti gli effetti, ma la differenza è che il miele viene dai fiori e non è digerito dall’animale, come abbiamo visto; la melata viene dalla pianta stessa e ha il passaggio dell’animale afide; la melata sembra essere più ricca in sali minerali, è tendenzialmente più densa, più pastosa e non a tutti piace. Io la conservo per l’inverno: la trovo una riserva ricostituente in situazioni di freddo e l’umido.

Adesso veniamo ai nostri alveari, visto che ho completato la visita che dovevo.
Situazione esterna: l’acacia è già sfiorita sulle piante giovani, è in piena fioritura su quelle medio-alte, e le piante più vecchie e quelle più in quota stanno iniziando adesso a fiorire.
Situazione interna: sui dieci alveari, il 6, il 7, il 9 ed il 10 sono andati a melario, cioè le api sono salite a deporre il miele, anche se davvero pochino pochino, a parte il 7 che è in testa e ha quasi completato un melario; l’1,il 2, il 3, il 4 e l’8 sono adesso in procinto di imbiancare e quindi non sono ancora saliti; infine il 5, meschino, ha ancora covata solo su quattro-cinque telaini.
Vi do modo di fare un paragone: come sapete avevo alcune famiglie di ligustica dallo scorso anno ed ho preso alcuni nuclei di Buckfast e di ibride, per avere modo di capire le differenze.
Bene, su sei alveari, in totale, cinque sono andati a melario, ma ad oggi lo hanno già quasi riempito, ed uno è rimasto indietro, iniziando ad imbiancare ora.
Ancora: avevo apposta fatto tre nuclei, uno di sicula, uno di Buckfast ed uno di ibrida, praticamente nello stesso momento, cioè a dire nell’arco di circa una settimana; il nucleo di ibrida adesso ha quattro telaini di covata, la Buckfast ne ha tre e la sicula due.
Conclusioni? Nessuna, per ora: stiamo ad osservare e accumuliamo informazioni.
Sembrerebbe che le sicule siano più lente ad ingrandire la covata, e certo producono meno cera, a parità di forze; tuttavia ancora non posso dire come siano a raccogliere, dato che ora non c’è paragone fra le varie famiglie: le bionde (Buckfast ed ibride) sono cresciute sicuramente di più delle nere.
Ma noi abbiamo iniziato questa avventura, dobbiamo ricordarlo, con l’intento non solo di fare miele, ma, anche e soprattutto, per cercare una via d’uscita dalla attuale situazione apistica compromessa e costretta ad usare sostanze chimiche o di sintesi, quindi ci interessa anche e soprattutto come andrà a finire la stagione della raccolta nel suo insieme, che da noi termina a fine luglio, con (a volte) uno strascico per la melata alla fine di agosto, e come sverneranno e come riprenderanno a febbraio. Quindi abbiamo davanti ancora nove mesi di verifica. 
Certo tutto ciò, ed è per questo che ho voluto tenere paragoni fra varie razze, ci servirà per decidere cosa fare il prossimo anno: a me per scegliere quale razza moltiplicare e a voi, e ad altri che volevano entrare nel gioco ma che abbiamo messo in stand-by per non fare una cosa troppo grande, per decidere se continuare o no.
Nel frattempo ci siamo conosciuti, e spero che queste note possano servire, al di là del rapporto con me, per ampliare la condivisione su un argomento che sta a cuore a tutti noi, cioè a dire il sapere con cosa si desidera nutrirsi, come lo si vuol fare e cosa ci sta dietro a quel che lasciamo entrare nel nostro corpo.
Dunque faremo miele?
Probabilmente acacia no, a meno che un paio di famiglie abbiano lo sprint finale su quest’essenza, ma anche in questo caso non sarà poi molto.
Staremo a vedere il tempo, se l’acacia prolungherà la fioritura o se ci pioverà sopra; se il tiglio seguirà a ruota o se inizieranno sciamature, eccetera.
Per chi tiene le api stanziali e non fa nomadismo, e magari dirò il mio parere su questa pratica, la dipendenza dalle variazioni del tempo meteorologico è assoluta.
Probabilmente avremo del millefiori molto chiaro, che poi, assieme alla melata, è la varietà che personalmente preferisco.

Ma, se foste in apiario in questi giorni di raccolta, vivreste una situazione che ripaga della fatiche e delle apprensioni: anzitutto nell’aria c’è un profumo di nettare che a volte è davvero inebriante, poi si respira una situazione di pace e di operosità allo stesso tempo: le apine sono indaffaratissime, e scivolano fuori dagli alveari così velocemente e, con un intento così determinato, si mettono sulla linea di volo che è uno spettacolo vederle; allo stesso tempo sono tolleranti, si lasciano avvicinare senza problemi –anche le sicule!!!- e ci si può camminare in mezzo lasciandosi avvolgere dal ronzìo e dalle vibrazioni dell’aria.
Sono giorni magici, questi, che non si ripeteranno più fino al prossimo anno: infatti, dipendentemente dall’essenza che viene raccolta, le api cambiano umore; ad esempio, raccogliendo il castagno, sono molto più irritabili, acide, si direbbe: infatti il castagno  contiene tannino, ed anche il veleno cambia: se vi fate pungere sotto acacia poco male, ma la puntura di un’ape che sta bottinando castagno brucia molto più intensamente.
Per compensare, osservando le api che bottinano sui fiori di tiglio, si vede con chiarezza che sono sotto effetto di sostanze stupefacenti: il tiglio infatti ha un blando effetto ipnotico e le api sembrano volerselo vivere tutto.
Così godiamoci questi giorni di raccolta dell’acacia: poi sarà il tempo del tiglio e del castagno, poi dei fiori del bosco, cioè a dire rovi, solidago, lampone e quant’altro, e speriamo che qualcuno lasci andare in fiore la medica; infine, forse, della melata.
Ci risentiamo la prossima settimana.
Adriano.


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