mercoledì 4 maggio 2011

Adotta un alveare - Bollettino del 4 maggio 2011

Buongiorno.
L’apicoltore, dicevamo, a questo punto, se si è goduto lo spettacolo della sciamatura, non può fare altro che raccogliere lo sciame in un piccolo alveare, fornirgli qualche telaino, magari dopo un paio di giorni, e stare a vedere come si comporta.
Se lo sciame non si è fermato in posizioni assurde, tipo a dieci metri di altezza, o avvolto attorno al tronco, o cose del genere, è piuttosto facile raccoglierlo, ed è anche una cosa divertente: le api sono assolutamente docili, e, con un po’ di pratica, sembra di condurre un gregge di pecorelle obbedienti…
Ben diverso è il discorso dell’apicoltore di fronte al problema sciamatura: evitarla o no? E, se sì, come?
A monte, tanto per dire, c’è la ricerca di selezionare ceppi che sciamino poco o nulla, e gli incroci che tanto hanno indebolito le api negli ultimi decenni sono iniziati con lo scopo, tutto umano, di avere famiglie che rendono molto, sciamino poco, siano docili, e che magari facciano anche il caffè.
Come le mucche, costrette nelle stalle, che ascoltano Mozart così si distraggono un po’ e fanno più latte, o come le galline nelle stie, o i maiali all’ingrasso…
Poi, mi pare anche logico che ceppi selezionati, con regine che devono soddisfare bisogni umani, e non importa se non vivono molto, siano sensibili più di altri a virus e schifezze varie.

Ma restiamo alla sciamatura: se tentiamo di sottrarre alle api o di annullare il meccanismo della sciamatura, facciamo un lavoro contro natura, che va nel senso di eliminare un atto di rinnovo, di pulizia, di auto selezione, un impulso, infine, che è qualcosa che sta da sempre nello spirito dell’ape: come se si andasse ad umiliare un aspetto caratteristico e fondamentale.

Ma, certo, la sciamatura è, per certi aspetti, una seccatura: costringe a lavorare di più, porta confusione nell’apiario, fa perdere raccolto. Per un apicoltore che ha qualche decina di casette non è in fondo un gran male, ma per chi ne ha centinaia…
Un anno, uno dei primi anni in cui questa passione mi aveva contagiato, avevo una trentina di casette, e ne sapevo ben poco di tutto: mi piaceva soprattutto il brusio sonoro e visivo che ti avvolgeva andando a lavorare in apiario; mi interrompeva il dialogo interiore, era come andare a meditare. Bene, ad un certo punto partirono le sciamature; io, lo sapete, sono in mezzo al bosco, e quell’anno non partirono solo le sciamature primarie, ma anche quelle secondarie e insomma, ricordo che al trentesimo sciame recuperato gettai la spugna: ero stufo di arrampicarmi sugli alberi a inseguire sciametti, e mi fermai.
Era evidente che stavo sbagliando qualcosa nella conduzione, mi ero perso uno o più passaggi importanti, avevo da imparare più di quanto pensassi.
Con la coda fra le gambe tornai alle mie casette, cominciai a mettere ordine, pian piano, in quell’insieme di famiglie smozzicate, regine vergini, e nuclei senza forza; cominciai a riunire, con pazienza, a eliminare regine in soprannumero e a ricompattare l’apiario. 
Ovviamente, non avevo capito i segnali che le api emettono, sempre.
Non è sempre facile parlare altre lingue…o almeno intuirne il significato.

Dunque, che fare?
Beh, penso che ognuno adegui le proprie azioni a quel che pensa, o a come desidera essere nel mondo, e quindi anche con le api accade così.
Ad esempio, una pratica molto diffusa è quella di cercare le celle reali e di distruggerle, pensando in questo modo di fermare l’impulso. Se va bene, dopo qualche giorno l’alveare è di nuovo pieno di celle reali, e di nuovo l’apicolture le toglie: “vediamo chi si stanca prima…”
In questo modo non togliamo l’impulso, ma soltanto lo impediamo, ponendo le api, come ogni animale di fronte all’impedimento di una sua caratteristica, di fronte alla scelta se adattarsi, snaturandosi, o se ribellarsi. Del resto anche per noi vige lo stesso meccanismo: ci ammaliamo quando non riusciamo ad armonizzare la nostra vita con quello che è la nostra natura, con gli impulsi interiori; certo, per l’uomo la situazione è più complessa e personalizzata, ma il discorso non cambia.
Comunque: posto che la sciamatura, dal punto di vista dell’ape, è la cosa migliore, e che l’eliminazione delle celle reali è quella peggiore, cosa c’è nel mezzo?
Un sacco di metodi, che ora non vi sto qui ad elencare, perché poi la fantasia dell’uomo si è sbizzarrita nel tentativo di trovare un compromesso fra esigenze così diverse: ve ne dirò un paio che uso io, che mi sembrano (per ora) quelli meno contrastanti l’impulso di riproduzione.
Il primo addirittura non impedisce la sciamatura: quando mi accorgo che una famiglia si prepara a sciamare, la tengo d’occhio; siccome la vecchia regina sciamerà uno o due giorni prima che nasca la nuova, il giorno della sciamatura io avrò l’alveare, un po’ confuso, in verità, con tante celle reali sparse sui telaini di covata.
Così mi godo lo spettacolo della sciamatura, e poi, con calma, mi recupero lo sciame; apro quindi la casetta che ha sciamato e valuto, a seconda di quel che trovo, se lasciare tutto così –nascerà una nuova regina che, dopo aver ucciso tutte le altre, farà il suo volo nuziale e darà vita ad una nuova famiglia- oppure se dividere in due i favi di covata, con relative celle reali, e dar così il via a due nuove famiglie.
Se l’alveare era molto forte, avrò alla fine una famiglia, quella sciamata, e due nuclei con regine nuove.
Se invece per motivi miei –tempo, non disponibilità ad esserci, altri alveari deboli, etc.- non desidero che sciamino, anticipo l’avvenimento: sottraggo la vecchia regina e la pongo in una arnietta con poca covata, mettendola al posto della vecchia famiglia; con i telaini rimasti mi comporto come sopra: le bottinatrici rientreranno nell’arnia della vecchia regina, aiutando la ricostituzione di una famiglia, di cui, dopo un mesetto, deciderò che fare; il o i nuovi nuclei verranno messi ai margini dell’apiario e si svilupperanno secondo la loro natura.
Tutto ciò sembra lineare, sulla carta, ma in realtà non è così: le varianti e le improvvisazioni, con le api, sono all’ordine del giorno, senza contare gli imprevisti del tempo meteorologico e gli influssi delle costellazioni, che danno, di una stessa azione compiuta in giorni diversi, esiti differenti.
Ma questa è un’altra storia.
Come dice Gianfranca: una storia fantastica, nel senso che davvero la natura, a saperla guardare, è fantastica; davvero le api danzano, per comunicare, e ronzano e vibrano in frequenze diverse a seconda di cosa stanno comunicando: e non possiamo definirlo un canto?

Le nostre sicule: su dieci alveari due sono su quattro telaini di covata, quattro su cinque e quattro su sei telaini di covata. Dice: perché non pareggi in modo da portarli uguali tutti quanti?
Dico: perché i due deboli hanno rivelato regine non all’altezza del loro ruolo: non depongono in modo omogeneo, soprattutto, oltre a deporre poco, cosa che è indice di scarsa qualità, per dir così. Do loro tempo, ma non scommetto più sul risultato, diciamo.
Sicchè, visto che fra poco dovrebbe partire l’acacia, ho preferito conservare qualche alveare particolarmente forte: faccio sempre in tempo a sottrarre un telaio di covata…
Strategie…con le api è difficile funzionino, ma a volte ci si becca.

Un saluto da Lodisio, ci sentiamo fra qualche giorno.
Se avete domande da fare, curiosità da soddisfare, dite pure: se posso rispondo volentieri.
Adriano.

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